La Frick Collection a New York è, di solito, una specie di casa dei fantasmi sul crinale di Central Park: un maniero tutto tende e ceramiche orientali in cui decine di sguardi ti trafiggono nella penombra da pareti coperte di legno, o di seta, o di finissime carte da parati d’un tempo, sporgendosi ipnotici dai quadri più belli del mondo: da Piero della Francesca a Vermeer. In questo momento stanno ristrutturando quelle stanze da film gotico e la collezione è dunque temporaneamente traslocata in un edificio brutalista su Madison Avenue.

Quando però le opere rinascimentali erano ancora esibite a casa del signor Frick, secondo il criterio un po’ astruso e drammatico tipico di tutte le residenze di miliardari eccentrici trasformate in musei, si arrivava, a un certo punto, in una stanza piena di velluti dominata da due impressionanti, scintillanti ritratti maschili di Tiziano.

Ogni volta che porto i miei studenti americani a visitare la Frick chiedo loro di sostare in quella stanza e di guardare i due quadri per un po’, di cercare di capire chi fossero i due uomini ritratti e di dirmi, in base a quel che Tiziano ha dipinto e senza googlare niente, chi dei due fosse il più potente.

La collana di Aretino

Mi aspetto sempre che tutti puntino sull’innominato giovanotto a sinistra col berretto rosso, così bello e fasciato di sete dorate e pellicce principesche, con l’elsa della spada in bella vista. È armato, ben vestito, signorile. Invece vince sempre l’altro, più grasso e barbuto, pure lui impellicciato ma tutto di bruno, con anche la seta delle grosse maniche sul marrone.

Quell’uomo tracagnotto è Pietro Aretino, lo scrittore che ricordiamo come il primo ad aver sviluppato una fama personale tale da intimidire sovrani e mecenati: il potere di far fallire un principe, una contessa, o un magnate banchiere raccontandone i vizi, veri o presunti, in uno dei suoi popolari scritti per il mercato dei libri, del teatro, delle lettere un po’ gossip.

Literary star e ricattatore, proto-influencer dichiaratamente sodomita e fiero, capace di scrivere finissimi sonetti zozzoni e dettagliate vite di sante, Aretino appare ai miei studenti più potente del suo vicino di galleria (come in effetti fu) perché, invece della spada, ha una collana. Una grossa, lunga catena d’oro massiccio.

Pare che amici ed estimatori (specie i potenti che volevano ingraziarselo, tipo il marchese di Monferrato) solessero regalare collane preziose a questo intellettuale figlio di calzolai, e che quella nel ritratto tizianesco fosse la sua preferita: un dono del re di Francia, nientemeno.

Quell’oro esibito con orgoglio, non frutto d’eredità familiare ma di ingegno individuale, appare ai miei studenti come inequivocabile protagonista del quadro: chiunque sia il panzone che lo porta deve essere uno che ce l’ha fatta, e che sa come farlo sapere a tutti.

A noialtri patiti della virile umiltà materiale di un Dante che mangia pane altrui o di un De André in maniche di camicia, di un Tasso in cella o di un Vasco in tuta con al limite il ciondolino portafortuna, l’ostentazione cinquecentesca di Aretino può addirittura apparire complessata, da parvenu, certamente volgare. Ma se uno cresce ascoltando hip hop, rap e trap, non come novità esotiche ma come storici pilastri culturali della nazione, la gioielleria risponde a un’altra grammatica.

Gioielli maschili e autenticità

Fatevi un giro sugli account Instagram delle gioiellerie di Filadelfia per esempio. Quella sotto casa mia, dove ho portato a sistemare un vetusto orologio sovietico di mio nonno, si chiama Shyne Jewelers, e i gestori postano in continuazione i lavori che fanno. Tempestano di diamanti qualunque cosa, specie per i gioielli da uomo: bracciali già d’oro, anelli di platino che raddoppiano di volume e collane, collane, decine di collane grosse come cavi dell’alta tensione.

È chiaro che la questione non è banalmente estetica. Questi poderosi gioielli artigianali più barocchi dei veri gioielli del Barocco, che letteralmente abbagliano la lente dell’iPhone nelle stories, sono concepiti per accumulare più valore possibile nel volume limitato di un oggetto indossabile.

Sono talmente carichi di oro vero e di diamanti veri che sembrano, fatalmente, falsi – ma d’altronde, chi avrebbe davvero il coraggio di accollarsi un catenaccio d’oro di quelle dimensioni, di quella vistosità, farsi finanche ritrarre con esso (da Tiziano o da Instagram), se fosse fasullo? La spacconata del figlio del calzolaio col regalo del re al collo si dà proprio perché di bigiotteria, a casa del calzolaio, non ne è mai entrata. Niente o tutto, fame o fama. Quando non puoi fermarti a mostrare certificati, il gioco dell’autenticità non può che funzionare al rialzo.

Pochi giorni fa è uscita una collaborazione clamorosa tra Sfera Ebbasta e Madame, il re della nostra trap e l’eclettica puer senex nella playlist di Cristiano Ronaldo. Sono diversissimi, ma sul punto dell’autenticità si trovano.

La mitologia dei rispettivi repertori di canzoni ruota spesso intorno a tragiche rivelazioni (o conferme) di verità e falsità, in sé e negli altri. Anche in questo semplice, quasi perfetto singolo, Tu mi hai capito, la questione è quella: c’è un nocciolo di verità al di là di orpelli e sovrastrutture, seghe mentali e fama, e tu, baby, l’hai capito.

La divergenza mi pare all’intersezione tra genere e classe. Sebbene nessuno dei due sia nato ricco, lei è borghese abbastanza da trovarsi autentica solo dopo essersi spogliata delle “sciccherie” («cose per sembrare come quelle un po’ più fighe»), contravvenendo alla logica delle superficiali amiche “sensitive” che invece raccomandano «portati tutti gli ori i money e le bigiotterie» quando vai a Roma a rimorchiare.

Lui, ancora visibilmente stupefatto (al decimo disco di platino) di essere evaso dai “palazzi”, di potersi comprare tutto quello che voleva comprarsi da ragazzino, è autenticamente sé stesso quando si porta addosso l’oro di tutte le Californie.

Le collane di Sfera

Tre anni fa, al suo grande concerto al Fabrique di Milano, Sfera saliva sul palco stracarico di roba vistosissima. Strati di corazza e prove di successo da accumulare, all’insegna di un’astronomicamente costosa gratuità – a che serve lo zaino sul palco? i gioielli sul microfono? gli occhiali neri di notte? il giaccone amaranto mentre tutti sudano sbracciati? Un altro assemblage di oggetti, incluso un cospicuo marsupio, lo proteggeva sul palco del primo maggio, e la settimana scorsa, duettando all’Arena di Verona con Blanco (l’altra grossa collaborazione di questa fine estate, Mi fai impazzire, al top della classifica FIMI mentre scrivo queste righe), Sfera sfoggiava bandana, occhiali, ori e sneakers gialle sotto a un completo nero, forse di pelle. Le costanti di questo arsenale inesauribile sono solo due: un vertiginoso ricambio continuo e le collane.

Queste collane da regina sempre al collo del re della trap sono il più efficace correlativo di tutta l’esaltante, tragica epica della sua opera, in cui d’altronde ricorrono costantemente come talismani («collane ghiacciate / c’ho il cuore a metà»; «il mio collo ti abbaglia»; «mi metto 20 collane / soltanto per farmi odiare»).

Mutuate dalla simbologia hip hop afroamericana, in cui trasfigurano le catene della deportazione e della schiavitù in simbolo di potere nero, le collane esibiscono le inequivocabili credenziali di Sfera e al contempo lo nascondono, rimbalzando il bagliore delle fotocamere e dei riflettori («al mio collo flash flash»).

Tutto il pathos di Famoso, il suo ultimo disco (così meno allegro del precedente Rock Star), si gioca poi su un cortocircuito: chi non ha mai avuto fame non può correre sulla cresta dell’onda come me e tuttavia qui, sulla cresta dell’onda, io non ho più fame.

Come Aretino, come Killmonger che in Black Panther lascia la collana sobria d’acciaio al nobile T’Challa e indossa invece quella sfacciata d’oro con dentro il costume di vibranio, per rimanere autentico Sfera deve continuamente specchiarsi nei cristalli e nei metalli che non era destinato a permettersi di sfoggiare. Portarli al collo significa non poter essere ritratti fuori da questa vitale contraddizione.

Nel momento in cui si spogliasse, come Madame, delle sciccherie, o indossasse le imitazioni dei suoi gioielli che ha lanciato come linea di bigiotteria per i suoi fan, o sfoggiasse il collo nudo di Blanco con una canotta bianca, Sfera non sarebbe più credibile come bardo di Cinisello Balsamo, ispirato cantore di poveri lussi come gli Uber e il bottle service dei privè. A farlo vero sono gli ori e i diamanti che, al collo di un altro, parrebbero falsi.


Cose da maschi è un inventario degli oggetti che definiscono (o destabilizzano) la differenza più difficile da immaginare come uno spettro, invece che una dualità: quella tra maschile e femminile. È un osservatorio sulla metà del cielo che ci è sempre parsa nota, dominante, standard, e intende rimapparne le costellazioni visitando sia pianeti familiari che sistemi remoti, mai raggiunti prima dai telescopi.

Per capire cosa siano l’identità di genere, il patriarcato, persino il femminismo oggi bisogna interrogare la maschilità invece di darla per scontata.

Dalle armi e automobili di plastica che mettiamo in mano ai bimbi, agli smalti e collane dei cantanti che seguono su Tik Tok quando non li guardiamo, il catalogo delle cose ancora (o non più) maschili di quest’età fluida e immateriale racconta le fragilità di supereroi e leader carismatici, il potere di idoli mingherlini e soft boys, le aspirazioni e i sogni di chi lotta perché quella dei maschi diventi una tribù inclusiva e consapevole della propria mitologia.

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