Questa di oggi dovrebbe essere una newsletter allegrotta e ironica, perché per la settimana delle feste ho scritto un articolo su Babbo Natale, uno dei maschi centrali nel corrente pantheon occidentale (leggi capitalista) di figure mitologiche.

Lo potete scorrere qui e ci troverete la disamina di un concetto estetico e fisiologico che, da quando ho compiuto trent’anni, ho cominciato a incontrare sulla mia strada di maschio mediamente insicuro sul proprio aspetto fisico: il dad bod. Che tradurrei, vista la pancia natalizia da cui parte il ragionamento, come “corpo da babbo”: quella forma più o meno pingue, più o meno morbida e voluminosa, che i fisici maschili anche allenati tendono a prendere al sopraggiungere della mezza età.

La esamino con l’aiuto di Auguste Rodin, il grandissimo scultore francese che realizzò uno dei suoi capolavori cercando di rappresentare un eroe nazionale assai panciuto, Honoré de Balzac, la cui lezione di realismo non poteva tradursi in una statua falsamente magra.

E con l’aiuto di Majin Bu, il massimo avversario di Goku in Dragon Ball Z, e di Maciste contro i cacciatori di teste di Guido Malatesta, e delle pance di Thor e di Star-Lord e di Thanos.

Foto Jeff Kubina (Wikipedia)

Non me la sento però di continuare a elucubrare su Babbo Natale e sull’idealizzazione dei corpi realistici dei maschi, perché, mentre volavo sull’Atlantico per tornare in Italia a fare un po’ di vacanza, ai molti disastri sanitari, climatici ed economici di questi grami tempi di scioperi inascoltati e recrudescenze del virus, si è aggiunto un lutto molto importante per questa rubrica.

È morta, a sessantanove anni, bell hooks, forse la voce più sconvolgente del femminismo al crocevia tra genere, razza e classe. Mi pare doveroso dedicare un lamento a quest’anima grande, che sospetto moltə, tra chi mi legge, abbiano amato o si apprestino ad amare ora che le sue traduzioni in italiano ricevono un po’ della grandissima attenzione che meritano.

È stato a lungo difficile, mi sembra, incontrare il pensiero di bell hooks in Italia. A me almeno non è capitato: l’ho incontrato tardi nei miei studi, quando mi hanno chiesto di insegnare, negli Stati Uniti, un corso di teoria letteraria, e ho cercato di aggiornarmi su un concetto che conoscevo solo sommariamente, l’intersezionalità.

Lessi Black looks, un suo libro bellissimo del 1992 sulla rappresentazione della razza, e passai subito, con esaltazione non più professionale ma personale, quasi intima direi, a leggere i due libri che Maria Nadotti meritoriamente confezionò molti anni fa in italiano in dialogo con lei: Elogio del margine e Scrivere al buio, ora raccolti in un recente volume per le edizioni Tamu.

Negli anni successivi mi è riuscito sempre facile assegnare saggi di bell hooks in corsi dai temi più disparati, dall’avanguardia alla Roma del Quattrocento, perché i suoi saggi sono sempre prodigiosamente chiari e utili, incentrati su questioni particolarissime che però trascendono nei fatti più importanti che l’umanità abbia mai affrontato: la verità e l’amore, la liberazione di chi soffre, la rappresentazione e l’identità.

Copertine di alcuni libri di bell hooks

Leggere bell hooks mi ha autorizzato a pensare di scrivere questa rubrica, Cose da maschi. Non avrei dedicato uno dei primi numeri al nome se non avessi incontrato la sua scelta di sceglierne uno, e di cambiarlo al punto da esigere le iniziali minuscole, rompendo le norme editoriali di qualsiasi bibliografia.

Non avrei cominciato tanti pezzi con i fatti miei, con la mia tanto banale biografia, se non avessi scoperto con lei il concetto di autotheory, e non avessi re-imparato dai suoi libri che il personale è davvero politico – e a volte addirittura scientifico. 

Ma più in generale non avrei mai creduto di poter mettere in pratica il femminismo a cui ho sempre aspirato in questo (pur insufficiente) modo se non avessi letto il suo The Will to Change: Men, Masculinity, and Love, un libro che spero sia tradotto in italiano prestissimo, subito. Bastano poche righe a capire il disarmante potere di quelle pagine, la cui generosità intellettuale partecipa a una genealogia gloriosa (da Susan Sontag a Jack Halberstam) che certo noialtri uomini cis- non ci meritiamo, ma di cui abbiamo tremendamente bisogno. Eccone una dozzina:

«Se vogliamo creare uomini capaci di amare, dobbiamo amare i maschi. Amare la maschilità è diverso dal premiare e lodare i maschi quando corrispondono a un’idea d’identità maschile definita dal sessismo. Apprezzare gli uomini in base a quel che fanno per noi non equivale infatti all’amare i maschi gratuitamente, semplicemente perché sono quel che sono. Per amare davvero la maschilità, dobbiamo farlo indipendentemente dal fatto che i maschi la performino o meno. La performance è diversa dall’essere. Nella cultura patriarcale ai maschi non si concede di essere semplicemente sé stessi, nella gloria della loro identità irripetibile. Il loro valore è sempre determinato da quello che fanno. In una cultura anti-patriarcale invece, i maschi non avrebbero bisogno di dimostrare il proprio merito e valore: saprebbero dalla nascita che, a renderli validi, è il semplice fatto di essere. E che quel fatto gli conferisce il diritto di essere amati».

«Quella di saper indossare una maschera (questa parola che già condivide metà delle sue lettere con la parola “maschilità”) è la prima lezione che la virilità patriarcale impartisce a un bambino. Ogni bimbo apprende che i suoi sentimenti più profondi non si possono esprimere se non collimano coi comportamenti contemplati da ciò che il sessismo definisce maschile. Incaricati di mettere in pratica gli ideali del patriarcato, ai ragazzi si chiede di rinunciare a sé stessi. Così, imparano presto a tradirsi. E sono premiati per l’omicidio della propria anima».

Tradurre questi due paragrafi è un minuscolo omaggio di gratitudine a una maestra grandissima. Se non leggete l’inglese vi suggerisco, come regalo per chiunque meriti una grande gioia intellettuale e politica, la recente traduzione di Teaching to Transgress, uscita per Meltemi col titolo Insegnare a trasgredire. Auguri!

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