Visto che vi aleggiano nuvole di fosfina, un gas prodotto quasi solo da reazioni biologiche, pare che forse alcuni minuscoli organismi vivano e si riproducano, aerei, nell’acida atmosfera del pianeta Venere. Si tratta magari, banalmente, di lontanissime forme di noi medesimi: batteri e microbi terrestri, finiti laggiù a causa di remote esplosioni interplanetarie o recenti sondaggi spaziali sovietici e americani.

È però più eccitante supporre che siano invece i superstiti di un’antica, autonoma biosfera ricchissima, estintasi sulla superficie a causa del cambiamento climatico venusiano chissà a che punto nell’età astronomica del nostro sistema solare. Se li scovassimo davvero, gli alieni veri, avremmo veramente i dati necessari per capire la verità su cosa sia la vita (cioè noi, incluso tutto ciò che non è inorganico tra il cielo e la Terra).

Giacché senza l’altro da sé, il sé non si vede. O da sé si divide in alterità pretestuose, discrimini che finiscono per nutrire la fantasia di conoscersi e di non avere la responsabilità di conoscere nient’altro.

I baffi vengono da Venere

Una delle avventure di Lucky Starr, il più abbordabile dei fantascientifici eroi letterari di Isaac Asimov, lo porta, assieme al sodale marziano Bigman, proprio su Venere, che nell’immaginario di metà secolo poteva ancora essere una colonia umana sommersa in temperati oceani pullulanti d’inusitate bestie fosforescenti.

Gli uomini che Lucky e Bigman vi incontrano (e sono tutti uomini, tranne la signora Turner, l’unica donna d’altronde ad apparire, e di sfuggita, nell’intero ciclo dei romanzi di Lucky Starr) non sono alieni, ma discendenti creoli dei primi trasmigratori dalla Terra. E tuttavia risultano subito riconoscibili, e speciali agli occhi degli avventori forestieri, perché sfoggiano tutti degli spropositati baffi, che di primo acchito risultano addirittura comici ma sono in realtà, ripetuti all’infinito sulla faccia di qualunque maschio nella capitale planetaria Afrodite, semplicemente la norma sociale dello standard venusiano: quello che ci si aspetta.

Dopo qualche tempo Bigman si abitua a tal punto che comincia a trovare ridicolo il viso glabro dell’amico: confessa a Lucky di avere l’impressione che qualcuno sia passato con una pistola laser a sparargli via dalle labbra i baffoni che dovrebbero coprirle. Gli pare all’improvviso lui l’anormale, l’alieno; lo scambia, a un certo punto, per una femmina.

 A scuola s’impara che i baffi sono uno dei caratteri sessuali secondari specifici della biologia maschile. Eppure compaiono anche sui volti di chi sviluppa caratteri primari femminili, anche se quasi mai in proporzioni venusiane (ma del resto anche tanti maschi faticano a farseli crescere rigogliosi, come dimostrano le intrusive pubblicità di prodotti per lo stimolo della peluria facciale sul mio Instagram).

Mi pare particolarmente buffo che una delle marche più popolari di rasoi da baffi per sole donne si chiami proprio Venus, cioè Venere. Venus Williams, vent’anni fa, compariva con candidi baffi di latte appena bevuto nella celebre campagna pubblicitaria americana Got Milk?.

Uno dei volti baffuti più riconoscibili al mondo è quello di Frida Kahlo, la grande surrealista messicana, sebbene sulle copertine etno-feticiste di Vogue ed Elle i suoi iconici peli siano stati cancellati a colpi di photoshoppante orientalismo. La favorita e più potente tra le mogli dello scià di Persia Naser al-Din, Anīs-al-dawla, di origini contadine e prodigiosi doti diplomatiche e intellettuali, è passata alla storia come “la principessa coi baffi” a causa della sua pelosa immagine, che ai nostri occhi postremi e occidentali (la si googli) appare fluida e non-binaria ma lì, e allora (tardo Ottocento), esprimeva evidentemente una regale femminilità.

Quando Duchamp compie uno dei gesti seminali della storia dell’arte contemporanea aggiungendo i baffi alla Monna Lisa, non si limita al vandalo sberleffo dadaista che oltraggia la tradizione: il suo è anche uno scarto surrealista, un modo per renderci improvvisamente estranea la faccia forse più familiare e riprodotta d’occidente.

L’identità di genere è una cosa che costruiamo davvero collettivamente (sì, persino gli editorialisti che si domandano se non sia più oggettivo e «votabile» parlare invece solo di “sesso” dopo il vergognoso affossamento della legge Zan) e lo facciamo attraverso la ripetizione di continue omologanti conferme: baffi su milioni di venusiani, niente baffi su milioni di cartoline, calamite, illustrazioni di Gioconde.

Che si diverga dalla norma così costrutta per intenzionale sfida, come Duchamp, o involontariamente, come l’ignaro Lucky Starr in trasferta siderale, lo straniamento è lo stesso, e apre uno spiraglio di consapevolezza, di rivelazione, sull’arbitrarietà della norma stessa. Bastano i baffi insomma a fare degli assai terrestri oceani di Venere immaginati da Asimov un luogo alieno, in cui ci si scopre alieni, nonché ad alienarci la donna che più di tutte abbiamo l’abitudine di veder dipinta ovunque.

Il privilegio di essersi alieni

Da chi si trova in una condizione subalterna, da chi appartiene a quelle che chiamiamo minoranze, ci si aspetta che abbia coscienza della propria classe, etnia, disabilità, identità. Pensateci un momento.

Se un milanese (o un londinese) è nero, gli si domanda delle sue origini, se ha un contratto precario e vota a destra lo si biasima con stupore, se la sua famiglia è lucana gli si chiede di fare le orecchiette, se si muove in sedia a rotelle gli si regala la biografia di Bebe Vio, se ha un marito gli si fanno le condoglianze per la scomparsa di Raffaella Carrà. Se invece è “solo” milanese (o londinese) non ci si aspetta che abbia particolari legami e riflessioni da offrire su ciò che lo rende, come si dice, “normale”: la pelle chiara, l’essere benestante, l’avere una ragazza e due gambe nella media, l’essere cresciuto in città con un passaporto che corrisponde alla nazione in cui è nato e desidera vivere, e così via.

Se poi una milanese (o londinese) è donna appartiene in realtà, matematicamente, alla maggioranza, ma le si impone lo stesso, pena concretissimi castighi sociali, di farsi un’idea di cosa significhi essere madri, di ragionare su cosa dicano agli altri i vestiti che indossa, di non bestemmiare, di togliersi i baffi.

Il privilegio si spiega molto elegantemente su questo punto. La condizione di privilegio, da qualunque prospettiva la si inquadri, è un fatto di beata (o semplicemente pigra) ignoranza, di mancanza di responsabilità. Consiste nel lusso di non doversi conoscere, di non dover imparare nulla di sé, di essersi alieni. Di non trovarsi mai nella condizione di Lucky Starr, senza baffi su Venere e costretti a render(se)ne conto.

La parola che sto adoperando, privilegio, col suo etimo condiviso con “privato” e con “legge” che allude a diritti speciali, non aiuta molto a capire il contesto in cui ne faccio uso. Il privilegio di cui parlo non è affatto speciale – o meglio non sa di esserlo, come appunto i venusiani di Asimov. Né è necessariamente (ecco il punto) un vantaggio.

Movember

Parte del tirocinio alla minoranza cui sulla Terra, almeno dalle nostre parti, sottoponiamo le donne ha a che fare con questioni psicofisiche. Il tuo corpo, l’equilibrio chimico della tua mente, tendono a funzionare in un certo speciale modo, e dunque: pàlpati le mammelle, prenota visite ginecologiche, nota l’insorgere di disturbi alimentari, eccetera. In quanto “normali”, invece, ai maschi non si chiede di conoscersi in quanto tali altrettanto intimamente.

Uno stratagemma per ricordare agli uomini che sono appunto uomini, per straniarli dal ripetitivo ottundimento di un privilegio nefasto, è stato architettato ventidue anni fa (nell’era pre-hipster in cui di norma ci si radeva) da un gruppo di giovanotti di Adelaide. Hanno lanciato una campagna che, negli anni, è diventata una sorta di happening collettivo internazionale: si sono fatti crescere i baffi per tutto il mese di novembre, invitando chi, vedendoli di solito glabri o con baffi più corti, gli domandasse perché, a fare lo stesso e a informare il prossimo su questioni di salute maschile: il cancro alla prostata e ai testicoli, il varicocele, il suicidio. L’iniziativa si chiama Movember (dall’australiano “mo”, diminutivo per “mustache”, baffi) ed è abbastanza diffusa ormai anche in Italia.

Questa specie di silente fratellanza che aliena i maschi, come Gioconde di Duchamp, alla loro alienazione da sé, che gli (ci) permette di conoscersi in quanto improvvisamente (ir)riconoscibili altri, come promettono di fare i microbi forse davvero impigliati nei cieli di Venere, ha avviato un dialogo globale su come sensibilizzare i ragazzi sulle sfide specifiche che il loro corpo rischia di dover affrontare. Per il resto di novembre tenterò di raccontare alcuni nodi di questo dialogo, nato dai baffi non su Venere ma in Australia.

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