Goffredo Mameli, questo studentino genovese dai tratti delicati nascosti nella tempesta di un’esplosiva barba ottocentesca, aveva in realtà incominciato l’inno che sarebbe poi diventato nazionale con un grido di lode, con un augurio da tifo d’altri tempi che accoglieva tuttə nell’entusiasmo per il risveglio della patria da un atavico sonno: «Evviva l’Italia». Aveva anche scritto, per dir la verità, una stanza esclusivamente dedicata alle donne, invitandole a tessere bandiere e coccarde che «fan l’alme gagliarde». Aveva infuso l’amore che andava dichiarando per lettera a Giuseppe Mazzini in una serie di endecasillabi capaci di erotizzare santificandolo l’allora solo sognato processo di unificazione.

Pare che sia stato Michele Novaro, il più maturo musicista cui Mameli affidò poi le sue parole perché ne facesse un canto, a suggerirgli di tagliare la stanza muliebre, di aggiungere uno sfacciato «Sì!» da strillare dopo l’ultima strofa, di far più marziale l’innamorata canzone. E, soprattutto, di cambiare quelle prime tre parole d’auspicio e sorpresa che l’aprivano in una chiamata tra maschi, nello stabilirsi d’una parentela: «Fratelli d’Italia».

Non ho mai capito se quel senario che si dilunga sulle “a” voglia poi dire che noialtri italiani siamo fratelli tra di noi o che l’Italia è nostra sorella – “fratelli italiani” o “fratelli dell’Italia”. Non sono sicuro che sia la stessa cosa.

Il centocinquantenario dell’unificazione si celebrava, undici anni fa, proprio mentre mi laureavo, e ricordo una lectio magistralis dello storico Alberto Mario Banti alla Sapienza in cui ci mostrava come, nell’iconografia e nella retorica, i risorgimentali avessero fatto dell’Italia una donna violata e in pericolo, verso cui i compatrioti erano subliminalmente invitati a nutrire sentimenti di figli o, appunto, di fratelli oltraggiati, chiamati a riscattare l’onore di una minacciata sorellina.

Di certo sono fratelli fra di loro i giovanotti in perpetua lotta di Esopo, cui il padre contadino, per spiegare cosa sia la vera forza in una delle più fulminanti e fortunate favole latine sulla concordia, chiede di spezzare un fascio di verghe. Nessuno dei ragazzi, per quanto possente, ci riesce, sebbene ognuno sia perfettamente in grado di spaccare ognuna delle singole verghe sciolte una volta slacciatele dal fascio che invece le fa, unite, infrangibili. Forse non tutti sanno che l’origine mitologica del simbolo del fascio littorio sta in quell’apologo dei fratelli litigiosi.

Come al solito ci giro intorno, mi dilungo – ma se ricevete ancora queste lettere dopo la pausa estiva significa che conoscete i miei peccati di verboso professore, e che mi perdonate. Naturalmente sto ragionando, dopo aver spedito per posta il mio voto di residente all’estero in questa vigilia d’elezione, sulla simbologia virile che governa il partito, guidato da una donna, che certamente sarà protagonista dello spoglio di domenica prossima.

Invece di rimuginare sull’inquietante genealogia che lo conduce indietro, attraverso Alleanza nazionale e Movimento sociale italiano, dritto alla formazione che cent’anni fa marciava su Roma con in spalla l’emblema della favola esopiana, mi interrogo sulla formula che ha scelto per sopravvivere alla storia e raccontarsi originario e originale. Penso a quelle tre ambigue parole, riformulate da un giacobino queer di Genova a metà del secolo Diciannovesimo, e continuo a domandarmi insomma chi siano i Fratelli d’Italia, di chi siano fratelli, perché lo siano. Giacché l’essere fratelli è una cosa da maschi.

È trascorso esattamente un anno ormai dalla prima newsletter di Cose da maschi. Ne sono uscite quaranta, con altrettanti articoli online e sulla carta di Domani impreziositi dalle illustrazioni di Didier Falzone. Didier, in viaggio per il New England, me ne ha portato gli originali collage, che ora come vedete si fanno compagnia sopra al caminetto che ho trovato nel mio nuovo studio – ancora mezzo sconquassato dal trasloco fuori dall’inquadratura.

Molti altri pezzi, su oggetti e idee e sentimenti che leghiamo alla maschilità, li hanno accompagnati, scritti da attiviste, studenti, linguiste, scrittori, registe, gente d’accademia e di piazza, figure arcinote e alle prese con la prima pubblicazione nazionale. In origine mi ero detto: “Fino a maggio, poi basta”. Poi è partita “Cose da Maschi in estiva”, che in luglio ha spostato l’attenzione dalle cose alle parole.

Ora, mentre preparo un libro che raccoglierà il catalogo di queste dozzine di settimane di conferme e sorprese intorno al maschile (ebbene sì, uscirà l’8 marzo, stay tuned), mentre rimiro i collage di Didier e penso che ne voglio vedere altri, mi pare di dover continuare il discorso, ma tentando un’altra rotta.

In quest’anno accademico 2022/2023, che si apre nel segno di una probabile conflagrazione politica, vi propongo dunque di continuare a ritrovarci regolarmente, un mercoledì sì e uno no, a parlare di cose da maschi attraverso il filtro della fratellanza.

Voglio provare a mappare – sempre attraverso una serie di talismani materiali, com’è d’uso in questa rubrica – quel miscuglio di comportamenti e affetti, oggetti relazionali e luoghi co-abitati che si chiama, usando un fortunato neologismo inglese, bromance. Mi pare importante, addirittura urgente, sottrarre l’immaginario fraterno alle fantasie genealogiche e nazionaliste, ai secolari travisamenti di Esopo, e trovare il modo di dirci fratelli senza doverci vergognare – e senza doverci ascrivere a un Credo, a uno stato, men che meno a un partito.

Dal numero 36 in poi, Cose da maschi si dedicherà dunque allo scandaglio delle cose dei fratelli (d’Italia e d’altrove), e specie di quelli che fratelli non sono di sangue, né agli occhi della legge. La cultura recente e antica della bromance (dalla Bibbia agli Avengers, dal dolce stil novo ai rapper che tra loro si chiamano “bro” e “fra”) offre un repertorio utilissimo a re-immaginare o demistificare le norme che regolano le espressioni d’affetto, le fantasie di parentela, le strategie cooperative, la condivisione di spazi e ruoli, le tenerezze e le gelosie nei rapporti tra maschi. E consente anche di esportare fuori dalla comunità dei maschi, o presunti tali, certi paradigmi che, socializzati come virili, cambiano forma o ritrovano l’essenza quando si verificano al di fuori di una comunità o di un contesto tradizionalmente considerato maschile.

Ci vediamo dunque mercoledì prossimo! Scriverò di medaglie, di come ci si premia e incoraggia tra maschi affratellandosi, e ospiterò un articolo di Andrea Capra, nuovo italianista della Society of fellows di Princeton, che si apre sulla domanda “ci sono ragazze su internet?”.

Vi inviterò, come al solito, a scrivermi e a cercarmi sui social per affollare questa rubrica e questa newsletter di reazioni, idee, novità e sorprese. E vi chiedo già ora di invitare a iscriversi alla newsletter (qui) chi pensate potrebbe gradire riceverla, un mercoledì sì e uno no, nei prossimi mesi.

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