Come avevo promesso, questa settimana torniamo a parlare di oggetti maschili assai materiali, e in particolare di un accessorio che presso le donne conosce espressioni di estrema fantasia mentre tra gli uomini tende a un più banale utilitarismo – oppure proietta autorità, ascendente, potere. Mi riferisco a ciò che in inglese si chiama headwear, e che in italiano raccoglierei sotto l’ombrello della parola copricapo: cappelli naturalmente, ma virilmente anche elmi, corone, berretti militari e paramilitari.

Erano settimane che volevo fermarmi un momento a ragionare sul Mandalorian, questa serie tv che Disney+ da qualche anno produce nell’universo narrativo di Star Wars. È una serie strutturalmente semplice, addirittura formulaica, ma gustosamente consapevole delle proprie ascendenze tra western americano (e italiano) e cappa-e-spada giapponese, cavalleresco e banditesco. È insomma, a ben vedere, una serie sulla maschilità.

Il protagonista, se uno ci riflette un attimo, non è davvero il taciturno e formidabile guerriero-monaco eponimo, figlio (adottivo) di Mandalor, né suo figlio (sempre adottivo) Grogu, noto come Baby Yoda. Il protagonista è l’elmo, un dispositivo che sostituisce del tutto la faccia dell’attore Pedro Pascal – già icona della virilità bisessuale in Game of Thrones, in cui interpreta il mio personaggio preferito – salvo che per una singola scena in ciascuna stagione.

Per uno che studia l’epica cavalleresca, e che fin qui ha inflitto chiacchiere su numerosi elmi a chi pazientemente legge questa rubrica sull’identità di genere (l’elmo di Mambrino, l’elmo di Ettore, l’elmo di Clorinda e così via), l’occasione era ghiotta.

L’elmo del Mandalorian è un emblema delle costrizioni di genere che, nella mitologia della storia, impone al maschio che lo indossa religiosamente: del suo pensarsi su una via unica e costellata d’ineludibili imperativi. Tutta la serie è una continua, graduale epifania del fatto che, invece, i sentieri si biforcano: che non c’è bisogno di fondere l’elmo, o rinunciarci, per contemplare alternative e compromessi alla maschilità forte e silenziosa che rappresenta.

Si può togliere quel copricapo per un po’, decorarlo altrimenti, ereditarlo non per sangue ma per legami che esulano dalla discendenza patrilineare. Oppure si può comunque sceglierlo, certo, ma sapendo che appunto è un proprio vezzo, un accessorio selezionato tra altri disponibili, e che esprime un ventaglio di valori coscientemente abbracciati invece che ricevuti per una supposta normalità acquisita e impossibile da evadere.

Trovate il mio pezzo qui sull’edizione online di Domani, e questo sabato lo troverete in edicola sul giornale di carta. Parte da un evento di sabato scorso, il Kentucky Derby di Louisville: una corsa di cavalli cui tradizionalmente le donne si presentano sfoggiando fantasmagorici cappelli – ma da qualche anno, come si vede in televisione, lo fanno anche gli uomini.

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Include incursioni in Alice nel paese delle meraviglie e nell’estetica dei Village People, ma soprattutto include la splendida illustrazione di Didier Falzone, che da due settimane non vedevo l’ora di condividere. Didier affastella sul fallico cappello di un cowboy biondino le spille di ulteriori copricapi d’autorità, come quello di Napoleone e quello del re, ma anche cappelli alla marinara e da pescatore – inverando, anche nella finzione diegetica della figura, il senso combinatorio e accumulativo della tecnica del collage.

Ora che le immagini di Didier in questa rubrica sono un bel po’, vi invito a scorrerle in sequenza sul sito di Domani, o tra le vostre email pregresse, come ogni tanto mi capita di fare ipnotizzato dalla qualità del suo lavoro. È un grande privilegio trovare i suoi omini pronti per le mie elucubrazioni pseudo-saggistiche ogni settimana.

Dal profilo Instagram della fotografa Soazig de la Moissonnière

Un altro regalo che ho ricevuto da qualche tempo e che non vedevo l’ora di condividere è il secondo pezzo per Cose da maschi di Johnny L. Bertolio che, dopo averci ammaestrato su come superare l’omogenea maschilità dei canoni delle lettura per la scuola, torna all’attacco con un erudito pezzo sui peli.

Mi aveva scritto, a ridosso della vittoria di Macron alle elezioni presidenziali, per mettermi a parte di una genealogia estetica che aveva d’improvviso connesso una serie di riferimenti visivi disparati nella sua memoria di studioso: la genealogia della peluria, o meglio, del vello di Francia. Gli ho detto subito che doveva assolutamente scriverne, e oggi trovate qui il suo pezzo su Domani.

Johnny, con levità e scaltrezza, parte dalle più iconiche immagini del presidente uscente/entrante per riflettere sul Gaston della Bella e la bestia e sulle parrucche dei re di Francia. Connette poi a questa villosa rete d’oltralpe i disegni di Isabella Teotochi Albrizzi e le pellicce di David Bowie, il Chewbacca di Star Wars e i glabri contendenti di Uomini e donne, arrivando all’originario vello delle Argonautiche che ispirò Savinio e Pasolini.

L’oscillazione antropologica e culturale che in tutte le epoche ha opposto ideali di bellezza maschile lisci o irsuti, caravaggeschi o da neo-barbarismo di palestra, mostra una volta ancora l’arbitrarietà dei simboli del maschile, che anche nella più biologica delle espressioni non corrispondono, a ben vedere, con alcuna norma atavica e stabilita, ma re-inventano invece continuamente i propri significati cambiando di frequente quotazioni nel mercato capriccioso dell’immaginario.

Non vedo l’ora di condividere ancora altre cose, come un già annunciato ritorno agli scudi per un op-ed sui Sette contro Tebe e un nuovo pezzo di Lorenzo Gasparrini, oltre ad alcuni virili oggetti nel mio repertorio di idee che flettono un po’ più vertiginosamente del solito il concetto stesso di maschilità. Ma intanto, continuate a inviarmi ragionamenti e proposte, ché molto di quanto emerso in questa newsletter, negli ultimi mesi, è spuntato proprio dal dialogo con chi la legge.

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