Sono appena tornato da una cena tra italiani e italianisti in cui si è parlato assai del nuovo governo, della teoria di nomi femminili snocciolati dalla (mi perdonerà questa preposizione articolata) presidente del consiglio, di merito.
Francesco Casetti, eminente semiologo dal multiforme ingegno, ha adoperato come exemplum la sua prodigiosa carriera accademica per ribadire che la fortuna – non quella della lotteria e delle slot da Las Vegas o tabacchini: quella spiegata da Machiavelli e Boccaccio, rappresentata nei santuari di Preneste e d’Anzio, cantata da Plinio e Sfera Ebbasta – si traveste da merito per ingannare i narcisi e gli scampati, illusi di non avere debiti.
Ornella Rossi, fisica pioniera dell’ipertesto biblioteconomico e autrice di programmi scolastici per storicizzare le materie scientifiche, ci ha spiegato che la matematica si è a lungo insegnata come un idioletto esaurito nella sua funzione scolastica, inservibile dopo la maturità, utile solo a confermare i bias (di genere, di classe, di abilismo) con cui chiunque tende, se non si sforza di cambiare pedagogia, a distinguere i supposti meritevoli da chi magari ragiona anche meglio ma non corrisponde al calco preconfezionato della valutazione tautologica – i bravi son bravi a fare i bravi, gli altri no.
Dal canto mio ho raccontato che, tornato a casa, avrei inviato a Domani un articolo sulla cintura. Giacché forse non tutti sanno che la cintura, oltre ad essere stata a lungo cruciale accessorio virile, è anche diventata uno strumento di bonding, di affratellamento, per le goliardiche bromance cameratesche dei giovani neofascisti della Roma di CasaPound – e, di lì, degli schieratelli di tutta la penisola.
Morgan Ng, architetto votatosi alla lezione di Manfredo Tafuri e ora storico dell’arte rinascimentale, mi ha ricordato sornione che la cinta non è strettamente una cosa da maschi: l’iconografia della Vergine include il topos della Madonna della cintura, espresso in tele e pale a tutte le latitudini, incluso un dipinto barocco realizzato da una pittrice, Elisabetta Sirani. Ho ammesso di non aver incluso tale immagine nella mia galleria di cowboy, serial killer, poeti medievali e supereroi cintati, ma di aver scritto che, come Ezra (Pound) diventa Elsa (Pau) sulle labbra di Vichi di CasaPound, personaggio indimenticabile di Caterina Guzzanti, così Giorgio diventa Giorgia (serve che scandisca i cognomi?) e il bomberino, il casco, la spranga, il gagliardetto tricolore passano dai corpi maschili a quelli femminili nell’idiosincratica inclusività del neofascismo nostrano.
La cinta però, nel rituale di bonding di cui dicevo (si chiama “cinghiamattanza”, cercatelo su YouTube), rimane essenzialmente per maschi, e nel pezzo spiego perché – ricorrendo anche a Dante, al Jeffrey Dahmer della serie tv Netflix, alla Storia infinita, ai miei compagni di liceo e alle nonne e zie che mi rimproveravano quando la camicia mi usciva dai pantaloni.
Trovate il pezzo qui su Domani online, e sabato uscirà nella versione cartacea del giornale. Credo che chi segue questa newsletter abbia ricevuto recentemente un secondo buono per una copia gratuita in edicola, e mi auguro che lo userete. Anche per veder stampata l’immagine composta da Didier Falzone, che combina sottili simboli di ur-fascismo (libro e moschetto, posa mussoliniana) a un cinturatissimo abito da paggio, coi colori della Roma, inquadrato sotto il petto e sopra i ginocchi. È un collage di finissima fattura, come sempre, con dettagli che mi incantano: le dita in particolare, che si piegano per davvero avvolgendosi sull’accessorio o intrecciandosi a esso in una tridimensionalità cui quel che scrivo – un po’ divagantemente, un po’ prolissamente – aspira.
Trovate invece qui, sempre su Domani online, un articolo ospite che mi ha molto emozionato leggere, e che ben si adatta alla settimana – passiamo, d’altronde, dalle cinture ai cinturini. Marcella Martin, storica dei tessuti e del costume che sta prendendo un dottorato in italianistica alla New York University, ha scritto infatti di orologi: oggetti che hanno avuto un altissimo grado di specificità di genere ma che oggi cambiano di polso, nello spettro tra maschile e femminile, con fluida agilità.
L’italiano di chi l’italiano lo studia, invece di esserci nato dentro (pur legandosi ad esso magari proprio per nascita perché discendente di migranti italiani, come Marcella) è una lingua che m’innamora: più diretta, eppure talvolta più distaccata, di quella di chi la chiama “madre”; più intenzionale, meno distratta.
Marcella, pur essendo un’enciclopedia della storia della moda e degli accessori – ha curato un’importante collezione di materiali tessili, si destreggia negli archivi di Ferragamo e Prada, scrive del ruolo di scarpe e altri vestimenti italiani nei maggiori musei d’oltreoceano – è partita dal personale: dalla sua propria storia italoamericana. Giacché l’orologio più emblematico della sua vita, quello di suo padre, è destinato al polso di sua figlia, omonima del nonno sprovvisto di primogeniture maschili cui affidare nome e cimelio secondo tradizione.
Questo articolo, generosamente scritto in italiano, ci ricorda che gli oggetti cambiano senso, come le parole, quando si spostano nel tempo e nello spazio, raggiungendo comunità che in altri cronotopi sarebbero state loro estranee. Parla di compravendite di orologi, di orologi mitologizzati e, naturalmente, di orologi ereditati, capaci di vincere la cronologia mentre la misurano, lasciandosi tramandare di generazione in generazione. Parla anche di Dante (quanto Dante questa settimana!) il quale, nell’economia del tempo che governa il Purgatorio, concepì un perfetto slogan da orologi di lusso.
Sono fatti per durare gli orologi, per segnalare uno status e renderlo trasmissibile a chi ci sopravvivrà. E in questa loro capacità di adattamento, in questa loro proteiforme resilienza di ingranaggi immortali e riparabili, ci ricordano anche che qualunque cosa da maschi in fin dei conti, se gli si dà abbastanza tempo, diventerà una cosa da femmine. O meglio, rivelerà di non essere mai stata davvero né da maschi né da femmine.
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