Tè indiano, di Ceylon, cinese e pochi altri. Non sono molti i paesi che associamo alla coltivazione del tè. Sbagliando. Perché invece, sorprendentemente, la Camellia sinensis (nome scientifico della pianta del tè) attraverso gli anni è stata coltivata ovunque nel mondo. Prima in luoghi dalle caratteristiche climatiche adatte, poi anche in aree geografiche con temperature e percentuali di umidità che si credevano proibitive per quella coltura, resa invece possibile da serre, adattabilità e tecnologie sempre più efficaci.

Questo perché il cibo, oltre a viaggiare globalmente come prodotto finito, ha sempre percorso l’intero pianeta anche sotto forma di pianta o seme. La memoria va subito al pomodoro, alla patata o al peperone che arrivarono in Europa in seguito ai viaggi di Cristoforo Colombo. Ma i percorsi della pianta del tè ci regalano una storia più complessa, perché intrapresi su molteplici strade e con diverse motivazioni.

Un successo europeo

Si cominciò da subito, appena il tè originariamente coltivato in Cina venne scoperto da altre popolazioni. Intorno al 1000 la Camellia si cominciò a coltivare anche in Giappone (dove acquisì significati religiosi e rituali), Corea e Medio Oriente. Intorno al 1200 le coltivazioni di tè in Asia erano frequentissime.

In Europa il primo carico di tè, portato dalla Compagnia olandese delle Indie orientali, giunse ad Amsterdam nel 1610; nel 1669 fu invece la corrispondente compagnia inglese a portarlo fino ai mercati di Londra. Si trattava di tè coltivato in Giappone e a Giava, poi sarebbero arrivati anche gli accordi con la Cina. Il tè piacque subito a Caterina di Braganza, moglie portoghese del re d’Inghilterra Carlo II, e così venne introdotto a corte. Fu l’inizio di uno strepitoso successo europeo. La nuova bevanda diventò rapidamente uno status symbol nei salotti aristocratici per poi scendere lungo l’intera scala sociale e arrivare alla working class. Se ne consumava sempre di più e quindi i paesi produttori, Cina in testa, alzarono il prezzo sicuri che l’Inghilterra, l’Olanda e gli altri paesi europei, ciecamente innamorati della bevanda, avrebbero continuato a comprarlo.

Il furto di Fortune

Non sbagliavano, ma soprattutto per l’Inghilterra il sacrificio economico diventava davvero eccessivo. La soluzione sarebbe stata coltivarlo in casa, ma come? Le prime piante di tè in Europa arrivarono nel 1763, ma solo per motivi di studio. Vennero consegnate in Svezia al botanico Linneo, che aveva inserito quella pianta in due suoi libri. Visto il clima, coltivarlo in Gran Bretagna era solo un sogno. Ma c’erano sempre le colonie. Nel 1802 si provò a coltivarlo a Ceylon, attuale Sri Lanka e allora colonia inglese, ma il tentativo fallì perché non si conoscevano ancora le tecniche e le tempistiche giuste.

Nel 1823 un militare e dipendente della Compagnia delle Indie Orientali, Robert Bruce, vide nella regione indiana dell’Assam una pianta selvatica di Camellia e credette di aver risolto il problema. Ma non era così, mancava ancora la conoscenza della tecnica. Nel 1834 il fratello di Robert, Charles Alexander Bruce, andò più vicino all’obiettivo realizzando la prima piantagione e mandando in Inghilterra le prime casse di tè prodotto in India.

Ma i cinesi lo facevano meglio e in quantità maggiore, e alla fine sempre da loro si andava a comprarlo, a un prezzo sempre più alto. Non restava che lo spionaggio industriale: un botanico scozzese molto coraggioso, Robert Fortune, andò in Cina sotto mentite spoglie (si travestì da cinese), studiò la coltivazione e, dopo varie vicissitudini e qualche fallimento, riuscì a portare in India non solo la pianta del tè, ma anche i segreti di quella coltura. Adesso la Camellia si poteva coltivare in una colonia britannica e quindi a costo quasi zero, visto lo sfruttamento di tanta manodopera. Tra i segreti portati a casa da Fortune c’era anche quello sulla differenza tra tè nero e verde: non venivano da piante diverse come si pensava; erano fatti entrambi con foglie di Camellia, ma trattate in modo differente. Grazie a Fortune, l’India divenne in breve il primo produttore al mondo e l’Inghilterra restò uno dei maggiori consumatori senza intaccare le proprie finanze.

La globalizzazione

Quando nel Novecento il colonialismo si avviò al tramonto, la globalizzazione della Camellia divenne qualcos’altro. Certo era ancora una scelta economica, ma cominciò a implicare anche un senso di sfida a chi credeva che quella piantina potesse crescere solo in determinate aree, temperature e latitudini. Nel 1957 il tè era coltivato in 53 paesi. Il maggior produttore era l’India, che insieme a Ceylon produceva il 68 per cento del totale, a parte il mondo comunista. Tra gli altri maggiori produttori c’erano Indocina, Turchia, Malesia, Iran, Rhodesia, Mauritius, Congo Belga, Argentina, Brasile e Perù.

E anche la Guerra Fredda ha avuto un ruolo anche nella coltivazione del tè. L’Unione Sovietica decise di produrlo in Georgia, la regione dell’impero che aveva il clima più adatto, per non dipendere dai mercati occidentali. Dal 1917 al 1956 i campi coltivati a pianta di tè in URSS si erano moltiplicati di 80 volte, con conseguente crescita della produzione.

In tutto il mondo si coltivava sempre più tè. In Africa, dal 1935 al 1956, la produzione era quadruplicata e l’Inghilterra ne era il principale acquirente. Il maggior produttore era il Kenya, che lo esportava insieme al caffè. Ma il migliore per qualità si coltivava in Tanganika (altra colonia britannica oggi parte della Tanzania). La Rhodesia e il Nyasaland (protettorato britannico corrispondente all’attuale Malawi) davano alla Gran Bretagna l’80 per cento del proprio prodotto. Tutto il contrario del Congo Belga, dove il 90 per cento del tè prodotto si consumava internamente. In Argentina, invece, si decise di coltivare la Camellia perché erano entrate in crisi le piantagioni di agrumi e dell’albero del tung, da cui si faceva l’olio usato per i mobili. Ma gli esperti non capivano come gli argentini riuscissero a coltivarlo nella provincia di Misiones, area con grandi sbalzi di temperatura. Era un segnale che faceva capire che la pianta aveva delle potenzialità anche in zone prima giudicate off limits.

Fino alla Scozia

Negli anni Ottanta in molti paesi la produzione entrò in crisi per colpa delle alluvioni, che cominciarono a compromettere l’agricoltura di paesi come Sri Lanka e Kenya. La produzione e il prezzo si stabilizzarono, ma l’alto costo dello zucchero comprometteva il consumo del tè nelle aree più povere. Il maggiore produttore rimaneva l’India, nonostante la siccità che aveva colpito il sud del paese. Globalmente, in questi anni la terra destinata alla pianta del tè decresceva per fare posto ad altre coltivazioni intensive, ma la produzione restava stabile grazie a fertilizzanti e pesticidi, con conseguente calo della qualità. Solo in Africa c’era abbastanza spazio per espandere il terreno destinato al tè, ma la produzione era minacciata da disordini sociali, colpi di stato e altri problemi politici. Il tè restava comunque la bevanda più economica dopo l’acqua e quindi tutti lo volevano.

Fu la crisi della qualità a spingere paesi insospettabili, con l’aiuto della tecnologia, a produrre tè in piccole quantità di grande pregio, e finalmente a realizzare il sogno: coltivare tè in Gran Bretagna. La prima piantagione fu in Cornovaglia nel 1999, nella Tregothnan Estate, dove grazie a un microclima favorevole e alla tecnologia oggi si coltivano anche banani, felci ed eucalipti. E poi addirittura in Scozia, dove nove donne hanno dato vita a una piantagione artigianale che vede in diverse parti del paese casette di vetro, concimi speciali e qualche volta il riscaldamento necessario alla crescita della pianta. Ed ecco il Nine Ladies Dancing Tea, oggi venduto in tutto il paese. Le nove neo imprenditrici (prima facevano altri lavori) hanno ricevuto in prestito dei terreni abbandonati, hanno ottenuto la collaborazione dell’università di Aberdeen e sono andate in India e Sri Lanka a imparare come si coltiva e produce il tè.

Isole Azzorre, Pirenei, Portogallo, Germania, Olanda... in tutta Europa si sta coltivando tè. Partito dalla Cina, il viaggio della Camellia continua, abbattendo tutte le limitazioni che gli esseri umani all’inizio credevano invincibili e alzando la qualità del prodotto grazie alla produzione su scala ridotta. Poco sostenibile, dirà qualcuno, visto il riscaldamento elettrico delle serre (comunque non sempre presente). Almeno per i pomodori è stato dimostrato il contrario: riscaldare le serre in Inghilterra inquina infatti di meno che importare il prodotto in aereo. Prima di un giudizio definitivo, quindi, meglio aspettare una ricerca simile sulla coltivazione della Camellia in Europa.

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