Presi dalla morsa del virus, attendiamo protezione dalle fialette che ci saranno iniettate. Tutti abbiamo la percezione che alla fine saremo liberati dall’invisibile nemico, ma sappiamo anche che saremo diversi da quelli che eravamo prima: se migliori o peggiori, lo dirà il futuro. Quelle fialette, però, tra tanti lutti, ci danno una sensazione di certezza; una volta vaccinati saremo – almeno così si spera – invulnerabili al virus: al virus, ma non alla vita, alle altre malattie e a ciò che in ogni caso prima o poi ci attende.

Questa epidemia ci ha ricordato, improvvisamente, la precarietà; la nostra individuale, e quella della nostra specie.

Più forti della natura

Giusto un anno prima che il virus iniziasse la sua subdola storia nel mondo, era stato pubblicato un libro di Yuval Harari, diventato in breve un bestseller mondiale: Homo deus. Breve storia del futuro. Dava corpo, in modo molto divulgativo, a un primordiale sogno dell’umanità: essere più forti della natura.

I futurologi sono per necessità degli utopisti, se non dei visionari, perché, invertendo la catena del tempo, fanno la storia su qualcosa che esiste solo nelle loro ipotesi.

L’uomo quindi diventerà, grazie al progresso, deus? Tra le ipotesi per la futura specie umana che Harari propone c’è appunto quella dell’immortalità; alcuni scienziati molto ottimisti pensano che con il progresso delle nanotecnologie entro cinquant’anni sarà teoricamente possibile raggiungere l’immortalità fisica.

Anzi, a quanto pare, a Silicon Valley alcune società stanno attivamente lavorando al progetto, sulla base del presupposto che la morte è solo “un problema da risolvere”.

Secondo Harari, già ora per le strade di New York circolano ricchi signori a cui sarà offerta l’opzione del ringiovanimento biologico e dell’immortalità fisica. Alcuni di questi ipotetici candidati all’immortalità, nel frattempo, possono essere stati uccisi dal Covid-19: ma non importa, perseguire un’utopia sotto veste di scienza e non di magia o di alchimia è un grande orizzonte che si apre.

Sentirsi (im)mortali

La percezione della propria mortalità è un prodotto della coscienza umana, e si è sviluppata a un certo punto dell’evoluzione della nostra specie: i gatti, per esempio, non la possiedono. In un altro stadio dell’evoluzione, quello attuale, comincia a farsi strada la percezione opposta. Ammettendo comunque che biologicamente si possa produrre un homo deus, restano da risolvere molti altri interrogativi, il primo dei quali è: che ce ne faremmo di tutti questi secoli regalati? Occorrerebbe una profonda ristrutturazione della coscienza umana, perché la nostra non è programmata per l’immortalità.

Un amore perduto, una delusione lavorativa, un ideale fallito, la vicinanza di chi ci è molesto: bastano poche cose per costellare d’infelicità una breve esistenza. Senza una profonda evoluzione della coscienza, per la quale la biologia non basta, chi progetta l’eliminazione della morte fisica rischia di rendere immortale non l’essere umano, ma la sua infelicità.

Nei miti

Poiché ogni grande problema della scienza e della ragione trova una corrispondenza simbolica nel mito, che riporta ai modelli essenziali della mente, potremmo ricordare che questo tema ha un folgorante precedente in alcuni versi dell’Odissea, quando la dea Calypso, che ha salvato Ulisse, vorrebbe tenerselo per sempre nella sua isola, e gli offre l’immortalità: «Perché vuoi tornartene in patria? Tua moglie invecchierà, morirà; qui potrai essere sempre giovane e bello».

Già, perché l’immortalità ha come corollario la giovinezza, altrimenti si rischia la fine di Titono, per il quale Aurora, che lo amava, chiese a Zeus l’immortalità e la ottenne; ma si dimenticò di chiedergli anche la giovinezza e da allora Titono invecchia e invecchia, vorrebbe morire ma non può.

Ulisse rifiuta. Sa che è nella natura umana stare dentro il tempo, e non al di fuori di esso. Un essere umano, per quanto ne soffra, sperimenta nella sua anima la legge del mutamento; la sensazione del tempo fa parte della sua natura come il sangue che scorre nelle sue vene.

La sua vita passa come un ramoscello trasportato dalla corrente di un fiume, ma non può fare a meno di continuare a scorrere, perché questo è il solo modo di essere che conosce. Ulisse preferisce rivedere Penelope invecchiata e la sua isola di pecorai e pastori, piuttosto che diventare un homo deus destinato a un’eternità umbratile. Da certi punti di vista, l’eternità fa più paura della morte.

Soluzione umana

Così, seguiremo trepidanti e preoccupati gli sviluppi di questa ricerca dell’immortalità nei laboratori di Silicon Valley e altrove. Eppure, un’elementare forma di vita (posto che il virus sia vita) ricorda un’altra faccia del problema: il caos. La “teoria del caos” si fonda sul fatto che i fenomeni casuali e imprevedibili abbondano in natura e nella fisica stessa, come anche, a maggior ragione, nelle vicende umane.

Ogni forma di evoluzione è caotica. Insignificanti inizi, anche un elettrone spostato chissà come per un miliardesimo di millimetro, possono avere conseguenze enormi e del tutto inattese: come dice la teoria dell’effetto farfalla, enunciata molti anni fa da Konrad Lorenz, un frullo d’ali di farfalla nel cuore della foresta amazzonica potrebbe innescare una catena imprevedibile di conseguenze tali da generare nel tempo un uragano nel Texas. Possiamo creare sistemi complessi e raffinati, ma non possiamo essere certi di controllarli. Un vaccino per l’immortalità? L’idea di un’umanità tesa a colonizzare ogni angolo della natura può scontrarsi con la casualità di un nuovo virus che spunta quasi dal nulla e in una dozzina di mesi cambia la faccia della società sulla terra. E l’umanità dà la sua risposta: in un tempo incredibilmente breve – meno di un anno – trova un vaccino; per la prossima pandemia probabilmente impiegherà tre mesi. Fermare il caos della morte e trovare il vaccino contro la morte: è un sogno che l’umanità porta con sé dalle origini e che viene espresso da mille miti.

Immortalità perduta

Il più antico poema che possediamo, l’epopea sumera di Gilgamesh, parla dello stesso sogno. Gilgamesh percepisce la vicinanza della morte solo quando il suo amico Kumarbi muore; allora si mette alla ricerca dell’erba dell’immortalità e la trova dopo molte peripezie. Si sta avvicinando alla sua città e intende condividerla con gli amici; ma è una giornata calda. Gilgamesh s’addormenta sfinito. Ed ecco che da un cespuglio sbuca un serpente e la mangia.

Così, per un puro caso, l’umanità non sarà immortale. Il racconto più famoso di immortalità fallita, nella nostra mitologia, è quello di Achille. Sua madre Teti è una dea, ma il figlio che ha avuto dal mortale Peleo dovrà soggiacere al destino comune. Così, la madre scende nell’Ade e immerge Achille neonato nella corrente del fiume Stige che rende invulnerabili, ma deve per forza reggerlo per il tallone, un punto piccolissimo, dove si stringono due dita: eppure è proprio lì che finirà la freccia scagliata dal pauroso Paride e Achille morirà.

Un punto, un punto solo, casuale, basta per fare crollare un progetto. La percezione dell’immortalità agognata eppure fallita si ripete innumerevoli volte nella mitologia comparata, facendo balenare un sogno che poi si spezza. È il caso del Libro dei re persiano (Shah-Nameh), in cui l’eroe Esfandyar si immerge tutti i giorni nella pozza dell’invincibilità.

Ma tuffandosi chiude le palpebre: un giorno il suo nemico Rostam gli scaglia contro gli occhi una freccia biforcuta, che penetra nelle pupille e lo uccide. Un solo punto, un piccolo punto.

Lo stesso accade a Sigfrido: uccide il drago Fafner e s’immerge nel suo sangue che rende invulnerabili, ma una foglia di tiglio, piccolissima, si incolla tra le sue spalle. Proprio lì il traditore Hagen scaglierà la lancia mortale.

Forse i progetti sull’immortalità biologica della specie umana daranno risultati, ma ci sarà sempre il rischio che un evento casuale sconvolga i piani, come la foglia del tiglio spezzò la speranza di Sigfrido.

Per il momento, almeno, possiamo essere ragionevolmente certi che la scienza, e non la magia, consentirà a tanti uomini in questo tempo di epidemia di guadagnare molti anni di vita.

 

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