Nel suo libro Il mito delle origini. Breve storia degli spaghetti al pomodoro, Massimo Montanari inizia il suo trattato spiegando che un seme può diventare una pianta, a condizione di incontrare un ambiente favorevole.

Rimanendo nella metafora vegetale, aggiunge che le parole radici e identità sono pericolose, spesso fraintese e confuse. «Le radici abitano il passato (...). All’altro capo della linea del tempo stanno le identità». Un punto di arrivo, dunque, determinato da incontri, occasioni fortuite e condizioni – ambientali, umane e culturali – che ne permettono lo sviluppo.

Ogni cucina – così come ogni altro fatto della storia umana – vive e si sviluppa lungo queste direttrici, compresa quella italiana. Per questo non è necessaria una difesa della nostrana cultura gastronomica, bensì lo è la sua conoscenza storica e una certa apertura mentale per permetterne la migliore evoluzione.

Italian sounding: quanto vale questa battaglia

Iniziamo col dire che più che dell’identità, dovremmo preoccuparci della difesa dell’originalità dei prodotti dell’industria agroalimentare italiana. Non si tratta di difenderne le ricette – che mutano a seconda della disponibilità degli ingredienti e degli esseri umani che le mettono in pratica – bensì il valore economico dei prodotti che le rendono possibili ovunque nel mondo.

L’Italian sounding è il fenomeno che sfrutta immagini, combinazioni di colori, riferimenti geografici e marchi evocativi dell’Italia per promuovere e commercializzare prodotti per lo più agroalimentari come italiani. La lotta alla contraffazione dei più famosi cibi italiani nel mondo è uno degli impegni che l’attuale governo (ma anche i precedenti) porta avanti in tutto il mondo.

Non si tratta di orgoglio, ma di soldi. Infatti, le perdite economiche del comparto agroalimentare italiano legate a queste vere e proprie frodi sono importanti. Ogni volta che un americano acquista il Parmesan, la Mortadela o i San Marzano Style Tomatoes (che richiamano i pomodori San Marzano Dop ma non sono affatto italiani), l’Italia perde 120 miliardi di euro all’anno (dati: Coldiretti/Filiera Italia). La regione più danneggiata dal fenomeno è la Lombardia, con un danno da 10 miliardi (dati: Ambrosetti). Eppure, fa sorridere pensare che il Parmigiano Reggiano più “autentico”, fedele alla ricetta portata oltreoceano dagli immigrati italiani del XX secolo, oggi lo si produrrebbe nel Wisconsin.

Infatti, secondo quanto riportato da Alberto Grandi in un’intervista rilasciata al “Financial Times”, prima degli anni Sessanta le forme di parmigiano pesavano più o meno dieci chili – e non quaranta come quelle siamo abituati a vedere – ed erano racchiuse in una spessa crosta nera.

La sua consistenza era più grassa e morbida di quanto non lo sia oggi, capace di far sgorgare una goccia di latte dalla sua spremitura. Così, mentre i casari nostrani hanno adeguato la ricetta ai tempi, facendo diventare il Parmigiano un formaggio a pasta dura con crosta chiara in grandi forme, nello stato americano c’è chi difende davvero la ricetta originale di questo caposaldo della cucina italiana.

Secondo un’analisi di Coldiretti su dati Istat, nel 2024 le esportazioni di cibo italiano hanno raggiunto la cifra di 70 stimati, con un aumento dell’8 per cento rispetto all’anno precedente. Il prodotto più esportato è il vino davanti all’ortofrutta trasformata, i formaggi, la pasta e gli altri derivati dai cereali, frutta e verdura fresche, salumi e olio d’oliva. La Germania resta il principale sbocco dei prodotti agroalimentari italiani, con 10,6 miliardi, davanti a Francia, Stati Uniti, Gran Bretagna e Spagna.

Gli Usa sono il primo mercato extra Ue per un valore stimato di 7,8 miliardi. Il tutto concorre a un ambizioso obiettivo: portare il valore annuale dell’export agroalimentare a 100 miliardi nel 2030. Se l’Italian sounding può portare in negativo questo numero, va da sé che combattere il fenomeno insieme ai ritardi infrastrutturali tutti italiani, è un primo importante punto da fissare nelle agende dei ministeri competenti, non sempre attenti a centrare il cuore dei problemi, ma sempre prodighi di proclami.

Lollobrigida contro tutto e tutti

Sin dal suo insediamento il ministro dell’Agricoltura Francesco Lollobrigida ha combattuto su diversi fronti gastronomici. La sua prima battaglia risale al 2023, quando ha messo al centro del bersaglio la carne sintetica. Coldiretti si è affrettata a benedire l’operazione, annunciando che lo stop al cibo sintetica salvava 580 miliardi di euro, cifra pari a quasi un quarto del Pil nazionale, e oltre 4 milioni di lavoratori italiani in 740mila aziende agricole e 70mila industrie alimentari.

Ma a fronte di una vittoria protezionistica, rinunciare all’innovazione ha un effetto boomerang sugli investimenti internazionali che vanno altrove; sulla leadership scientifica dell’Italia, inevitabilmente ridotta; e sulla riduzione di impegno sulla ricerca applicata sul tema.

Poi è stata la volta della grano prodotto in Italia, una vera ossessione per il ministro, forse alimentata dalla leggendaria trebbiatura di Sabaudia eseguita da Mussolini nel 1935. Funestato da speculazioni sul prezzo e dal progressivo abbandono delle terre da coltivare, il grano italiano – sia duro, destinato alla produzione di pasta, sia tenero – è insufficiente a coprire la domanda interna, che deve essere compensata dall’importazione di cereali europei o extraeuropei.

In più, il prodotto nostrano non sempre risponde ai criteri qualitativi richiesti dalle industrie di trasformazione. Lollobrigida ha proposto di pagare gli agricoltori per convincerli a tornare alla terra per seminare quelle che diventeranno alte spighe bionde. Peccato che le speculazioni economiche sul prezzo del grano italiano ad opera dei mediatori del settore non aiutino la lotta del ministro.

Poi è stata la volta del vino. Anche se i suoi stessi colleghi di governo hanno firmato leggi che restringono i limiti di assunzione di alcol per limitare gli incidenti stradali, il 28 settembre 2023 il ministro dell’Agricoltura in collegamento al Festival del Trentodoc ha tuonato contro chi cerca di criminalizzare il consumo di vino e propone di abbinare il consumo del prodotto al benessere fisico attraverso degli eventi sportivi.

Poi, con una sintesi sin troppo estrema di quello che i coniugi Keys avevano osservato in Cilento definendo i canoni della Dieta Mediterranea, Lollobrigida ha sostenuto che i poveri mangiano meglio dei ricchi. Peccato che la malnutrizione legata al consumo di cibi spazzatura o ultra-processati, nonché più economici, sia uno dei principali effetti della povertà. Una gaffe che dimostra come, proprio come la cucina italiana, anche la Dieta Mediterranea sia una mera etichetta spesso mal interpretata.

Un modello “indifendibile”

La verità è che la cucina italiana è “indifendibile”. Come tutte le culture gastronomiche del mondo, è frutto di contaminazioni. Basti pensare agli spaghetti al pomodoro, mito smontato dallo stesso Montanari nel succitato pamphlet. O alla pizza, trasformata dagli italoamericani che portarono con sé la memoria di una ricetta che oggi, se riprodotta fedelmente, darebbe vita a qualcosa di immangiabile, come spiega Luca Cesari nel libro Storia della pizza.

Anche le Fettuccine all’Alfredo, considerate un’americanata, dimostrano che siamo pronti a dimenticare – mistificandone, appunto, le origini – ciò che non ci sembra consono alla costruzione della nostra identità. La storia di questa ricetta inizia in Italia ma esplode in America, proprio come è accaduto con la pizza. Solo che, al contrario del celebre disco di pasta condito, le fettuccine all’Alfredo non sono mai piaciute agli italiani, che le considerano una "blasfemia" americana. Fissare un’origine rassicura, scrive Montanari, anche quando la fiction sopravanza la storia.

Come documenta Cesari, le fettuccine Alfredo sono uno dei piatti di pasta più famosi negli Stati Uniti, un vero e proprio simbolo della cucina italiana per molti, nostalgici americani e italoamericani. Diffusa nei ristoranti e anche tra gli scaffali dei supermercati come sugo pronto, questa ricetta è praticamente sconosciuta in Italia dove, in realtà, è nata. A inventarla è stato Alfredo Di Lelio nel 1908 nella trattoria di sua madre Angelina in Piazza Rosa, in cui oggi sorge la Galleria Alberto Sordi.

Lo chef creò il piatto per aiutare sua moglie nel post partum del loro primogenito. Fece di tutto per farle riprendere le forze con cibi sani e nutrienti. Nello specifico: delle fettuccine impastate nel semolino e condite con burro e parmigiano freschissimi. Il piatto - nient’affatto originale, a dirla tutta - finì nel menu del ristorante con una connotazione tutta nuova: era una ricetta con caratteristiche salutari.

A fare la fortuna di questa preparazione italiana furono due divi americani del cinema muto, Douglas Fairbanks e Mary Pickford. La coppia diffuse il verbo di questo semplicissimo piatto della tradizione italiana. Tutte le star di passaggio a Roma si affrettavano a consumarle per poter dire di aver mangiato alla corte del celebre Alfredo. I ricettari italiani la ricordano a partire dagli anni Quaranta, pur non menzionando lo chef romano, ma solo la calorica caratteristica del triplo burro.

Approdata negli Stati Uniti, la ricetta cambia. Per ottenere la giusta cremosità del condimento – la stessa che ha costretto gli chef romani a creare la "carbocrema" che piace agli americani – hanno aggiunto a burro e parmigiano un terzo ingrediente: la panna.

Ingrediente amato negli anni Ottanta e oggi ostracizzato, ne assicurava la riuscita perfetta, oltre a testimoniare che anche in cucina ci sono trend volubili, capaci di smontare persino granitiche certezze come l’uso della panna in cucina. Ad oggi fettuccine Alfredo fedeli alla primigenia ricetta si mangiano a Roma in due famosi ristoranti: Alfredo alla Scrofa e Il Vero Alfredo all’Augusteo. Ma non che quelle prodotte in altre cucine, specie oltreoceano, non siano vere. Al limite, potrebbero essere diverse a causa degli ingredienti utilizzati. Parmesan compreso.

Effetto nostalgia in cucina

La verità è che, da sempre, le ricette viaggiano con gli esseri umani e, come loro, si trasformano contaminandosi nei luoghi in cui approdano. Ne sono esempi i famosi spaghetti con le polpette, che in America diventano un contorno. O la Chicken Parm che non ha niente a che vedere con la parmigiana preparata dalle nostre nonne. Infatti, si tratta di un piatto della cucina italo-americana, nato dall’adattamento di ricette tradizionali italiane, come la parmigiana di melanzane, alla cultura americana.

Dentro si trova del petto di pollo tagliato in fette sottili, impanato e fritto; salsa di pomodoro, mozzarella che va a coprire il pollo, parmigiano ed erbe aromatiche. La si accompagna con un contorno di spaghetti (sic!), verdure grigliate o insalata, del pane all’aglio. Quando la nostalgia di casa si fa troppo forte, tutti gli expat in ogni parte del mondo affidano i propri sentimenti alla cucina.

Ad esempio, sotto Natale, può capitare di incappare in qualche foto o reel dedicato alle pizzelle, una variazione tutta americana di una cialda italiana originaria dell’Abruzzo. Segni particolari: il profumo di anice. Rispetto alla ricetta originaria, quelle americane sono più sottili e croccanti, oppure possono diventare più soffici. In più, dato che la nostalgia non ha orario, se in Italia vengono proposte soprattutto a Natale e Pasqua, in America può capitare di vederle preparare anche fuori stagione, pronte ad accompagnare caffè, tè o altre bevande calde.

Ci sono anche chef che, traendo ispirazione dalle proprie tradizioni familiari, portano i propri capisaldi gastronomici nelle cucine stellate. È il caso della lasagna stellata di Angie Rito e Scott Tacinelli, proprietari di Don Angie. La cifra stilista dei due chef italoamericani mescola due fattori: radici e identità. Le prime sono quelle della cultura gastronomica familiare.

L’identità, invece, è una marca più complessa, composta anche dalle influenze fusion. In un’intervista Rito ha dichiarato: «Mi prendo diversi rischi. Il cibo italiano è molto radicato nell’autenticità e, sebbene lo rispetti e lo apprezzi, ciò che facciamo Scott e io ha un elemento di rottura di certi confini tradizionali, utilizzando ingredienti e tecniche di diversi generi alimentari e presentando le cose in un modo nuovo». Forse è proprio questa la cucina italiana da difendere: quella che ancora non c’è e non sappiamo cosa potrebbe diventare.

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