Il governo vuole contrastare l’Italian sounding nella ristorazione.  «Basta ai ristoranti che si dicono italiani e utilizzano prodotti che non lo sono» ha detto il ministro dell’Agricoltura e della sovranità alimentare, Francesco Lollobrigida.  «Basta a cuochi che non sanno cucinare italiano e diventano, spesso, oggetto di barzelletta».

Ciò andrebbe fatto – secondo il titolare del dicastero – «riconoscendo, anche attraverso un disciplinare, quelli che sono i veri ristoranti italiani all’estero. Il governo è al lavoro su un nuovo progetto che lanceremo da qui a poco».

Italian sounding

Con l’espressione inglese “Italian sounding” si definisce l’uso improprio di segni distintivi e descrizioni informative e promozionali – riferimenti geografici o linguistici, immagini o combinazioni cromatiche (come il tricolore) e così via – che si rifanno in qualche modo all’Italia. La conseguenza è quella di indurre ingannevolmente il consumatore ad attribuire a certi prodotti caratteristiche di qualità italiana che in realtà non posseggono.

Un intervento di contrasto all’Italian sounding si è avuto con il cosiddetto decreto Crescita, che nel 2019 ha introdotto una serie di misure volte a proteggere il made in Italy e a favorirne la promozione sui mercati esteri. Ora Lollobrigida vuole agire in difesa dell’italianità nel mondo attraverso un disciplinare attraverso cui evitare che qualunque esercizio di ristorazione possa dirsi italiano senza rispettare le direttive imposte dal governo.

Lascia perplessi, innanzitutto, che l’esecutivo voglia occuparsi pure di chi fa impresa all’estero, specie considerato che imprenditori italiani spesso si spostano altrove proprio per sfuggire all’invasività delle regole nazionali.

Inoltre, quali saranno i destinatari del disciplinare?  Cioè cosa intende Lollobrigida per ristorante italiano? È un ristorante che propone classiche ricette italiane? Oppure ove si usano solo prodotti italiani? Peraltro, la pretesa dell’utilizzo di questi ultimi in giro per il mondo si scontrerebbe con la politica del chilometro zero, che prevede l’uso solo di prodotti locali a fini di sostenibilità ambientale.

Soprattutto, non è chiaro come il progetto che ha in mente Lollobrigida possa essere realizzato. Si esclude che il governo italiano abbia il potere di imporre all’estero norme di legge nazionali: la sovranità, inclusa quella alimentare, può essere esercitata all’interno dei propri confini, non in paesi terzi.

È probabile che il ministro non si riferisca a vere e proprie norme, ma a un insieme di indicazioni cui dovrà conformarsi chi voglia ottenere una certificazione di “italianità”. In ogni caso, desta perplessità il fatto che Lollobrigida pretenda di stabilire ciò che è ristorazione italiana e ciò che non lo è.

Ospitalità italiana

Il progetto del ministro sembra ricalcare un’iniziativa già esistente, il marchio “Ospitalità Italiana”, che però non prevede alcun coinvolgimento del governo.

Come si legge sul sito dell’Isnart, Istituto Nazionale Ricerche Turistiche, «Ospitalità Italiana è un’iniziativa del Sistema delle Camere di Commercio che, dal 1997, garantisce al consumatore standard qualitativi sulle imprese ricettive e ristorative certificate». La certificazione attesta la garanzia del rispetto di requisiti definiti in un disciplinare.

Un sistema di rating tramuta tali requisiti in Kpi (Key Performance Index), indicatori che consentono di verificare se l’azienda è idonea a ottenere la certificazione, analizzando il livello che essa raggiunge in quattro aree (qualità del servizio, promozione del territorio, identità, notorietà).

Per i ristoranti all’estero c’è un apposito elenco di regole, che individua requisiti obbligatori per ottenere l’attestazione di qualità, previo iter di valutazione. Tra queste, la presenza di almeno una persona che sappia parlare italiano; presenza di almeno un cuoco di provata formazione ed esperienza in cucina italiana.

Serve anche un menu composto per almeno il 50 per cento da piatti della tradizione gastronomica italiana; una carta dei vini che includa almeno cinque etichette Dop o Igp.

Ci sono, poi, requisiti non obbligatori, ma che contribuiscono al punteggio finale: tra questi, l’utilizzo di prodotti Doc-Dop-Igp nell’elaborazione dei piatti del menu o la presenza di elementi decorativi identificativi del made in Italy o dell’Italian style.

Se Lollobrigida ha in mente un’idea similare, perché duplicare un’iniziativa sperimentata da anni?u E perché si arroga competenze delle quali non si comprende il fondamento in diritto? Forse vuole dare un senso al suo ministero, il cui senso continua a sfuggire?

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