Per chi scrive di cucina sui social, ma soprattutto per chi propone le proprie ricette sui social, presto o tardi arriva sempre il momento della richiesta degli utenti, che iniziano a chiedere che cosa ti ha fatto appassionare alla cucina. 

Come hai imparato a cucinare? Da dove è nata la tua passione?” Da una mia indagine, otto foodwriter su dieci (ndr sarebbero gli scrittori un po’ italiani un po’ aziendalisti americani) rispondono, precisi come l’Ave Maria, qualcosa che abbia a che fare con le mani della nonna che impasta e con il profumo di casa del nonno che faceva il sugo.

Mi sono chiesta allora: ma cosa mi sono persa? Quando è cambiata la mitologia di noi scrittori (mi ci butto in mezzo pure io, perché quando mi ricapita), che siamo così profondi e con le chiavi del regno della sensibilità e dei significanti, perché siamo cresciuti in una una famiglia disfunzionale che ci costringeva a rifugiarci in un bar, con una mano che ci reggeva la testa e nell’altra una sigaretta spezzata, ma la vita un po’ di più? 

Cos’è questa nuova narrativa dei nonni amorevoli?
Eppure è un fatto. Le famiglie si sono ricompattate e hanno aperto la scuola della vita geriatrica: una sorta di Gambero Rosso capitanato da questi anziani accoglienti, risolti e anche cuochi, che hanno mandato al mondo un esercito di foodwriter che non li dimenticheranno mai: “oh nonno Capitano mio Capitano, nonno!”.

Visto che la mia passione è l’inchiesta, ma anche perchè non volevo sentirmi l’unica rimasta con  una famiglia disfunzionale che metteva pure il lievito nella frolla, ho deciso di chiedere ai miei followers di cosa stessimo parlando: chi sono realmente questi famosi nonni. 

Il box domande

Così su Instagram ho aperto il “box domande”, che è uno spazio in cui i miei follower devono rispondere a uno stimolo o una domanda che gli faccio. E in questo caso era: “L’ha detto nonna”, obiettivo: scoprire se questi nonni che insegnano a cucinare voi li conoscete? Esistono? 

Ho scoperto che nessuno è speciale (o comunque che non lo sono io, il che mi basta e che i miei followers sono potenzialmente tutti poeti maledetti. Infatti il 100 per cento degli intervistati riporta dei dialoghi, la descrizione di alcune situazioni, che solo marginalmente riguardano la cucina.

Al contrario questi nonni ci riportano a una disarmante realtà: la nostra generazione passa una vita a preoccuparsi della salute, della morte, del futuro, della linea, dell’educazione e della sessualità, mentre bastava interfacciarsi con i propri nonni per capire che, a un certo punto della vita, una tregua ci viene concessa, e non è la morte.

Dall’intento originario che era parlare di cucina, ho scoperto che l’argomento preferito dei miei follower per interposti nonni è la morte. In particolare: il fatto che loro ne sono terrorizzati e hanno ancora questo immaginario romantico e malinconico da romanzo ottocentesco, mentre i loro nonni la considerano un evento come un altro.
La mia sintesi è: noi ci alleniamo a schivare la morte per tutta la vita, anche solo dai nostri pensieri, gli anziani la aspettano come una trasmissione in tv o un autobus alla fermata.

Si finisce a parlare di morte

Il filone dell’aneddotica che mi è arrivato è ricco e inesauribile. Il telefono è uno degli strumenti preferiti di ogni nonno, ma la tecnologia rimane problematica. Di qui le domande: “Controlla se in rubrica c’è Celestino”, “Sì nonna, trovato”, “Cancellalo, è morto”. Oppure la nonna che chiama una sua amica, ma il telefono risulta spento: “Sarà morta”.  Anche il tema funerale funziona, con un nonno al funerale della sorella, vede l’altra sorella e le dice: “Caroli’, pensavo che eri tu quella nella bara”. Oppure ancora la nonna che si scusa: “A casa mia c’è molto freddo tesoro. Mi sto abituando alla temperatura della tomba”. 

Alcuni hanno latamente mantenuto cibo e cucina come sfondo: come quella che mi racconta che al pranzo di Pasqua il fratello dice: “Buona Pasqua nonna!’’. Lei: ‘’E che sia l’ultima’’. Oppure quello con la nonna che ha mal di stomaco: “Eddai nonna sarà reflusso’’, ‘’No, lo sento, sto marcendo dentro’’. Infine, la migliore: ‘’Nonna, basta porcherie, hai sentito il dottore?’’- ‘’Oh Ninì, la morte ha da trovarmi viva!’’.

Tutto vero, tutto documentato sul mio profilo instagram. 

La morale è facile: più che trasmettervi la magica arte della più improbabile cucina casalinga, i vostri nonni dovrebbero avere la cattedra di ‘’Istituzioni di realismo crudo I, la morte ha da trovarmi viva’’ e insegnarci a decomprimerci, perché tutti in quella direzione stiamo andando.

Woolf o Hemingway

Traslata nel mondo del foodwriting, quello di chi ha avuto i nonni che impastavano le fettuccine: gli scrittori di cucina non sono veri scrittori, perchè non hanno colto il vero insegnamento dei loro nonni.

Che sì, avranno anche impastato fettuccine a mano, ma insieme alla farina e alle uova, (sop) pesavano la vita, imparando anche a ridere della morte.

Poi certo, è vero quello che dice Virgina Woolf: per scrivere servono una camera tutta per sé e tre ghinee. Ovvero tempo libero e la serenità che solo i soldi ti danno. E anche per questo i nonni sono utili, considerato che loro - a differenza nostra - sono cresciuti negli anni di quel mitologico boom economico che chi lo ha visto mai.

Attenzione però. Come mi ha raccontato una mia follower: nonna invita a cena al ristorante i nipoti, noi contenti e lei: “Tanto poi avrete meno soldi voi in futuro”.

Però scusate se mi contraddico, è vero anche quello che dice Hemingway: ‘’Non ci vuole niente a scrivere. Tutto ciò che devi fare è sederti alla macchina da scrivere e sanguinare’’, non so se lui però andava a mangiare da nonna il giorno, forse sì.

© Riproduzione riservata