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Da quando siamo usciti dal peggior falso storico degli ultimi cento anni, ovvero che la cucina sia un mestiere puramente artistico e romantico, siamo piombati in un altro falso storico della stessa gravità, che è a metà fra un delirio generalizzato di onnipotenza culinaria e un possibilismo vuoto, generato da quel vento di positività tossica che soffia ultimamente sui social network, in particolare fra le pagine di cucina: le cose fatte in casa sono migliori di quelle industriali.

Per cominciare a spiegare quanto questa teoria non sia vera, bisognerebbe prima rispondere a una serie di domande, dure ma necessarie: quando abbiamo iniziato a credere che noi (o meglio voi, perché io anche se due o tre cose in cucina le so fare e nonostante questo molti dei miei cibi preferiti sono prodotti dall’industria, e li compro) fossimo migliori dell’industria?

Quando siamo diventati così pieni di voglia di fare? Quando esattamente abbiamo abbandonato la pigrizia di essere serviti e riveriti da persone che sanno cucinare meglio di noi?

O anche, quando abbiamo deciso che una cosa fatta in casa o “artigianale” abbia delle caratteristiche superiori a una cosa fatta in modo strutturato e in un sistema controllato, sia dal punto di vista della salubrità che da quello del gusto?

Siccome chi sta leggendo e appartiene alla categoria del “meglio fatto in casa” ha risposto in modo sbagliato a queste domande, è il momento di svelargli che – anche nei negozi e nelle pasticcerie – spesso la dicitura “prodotto artigianale” è la più grande bugia del mondo.

Il mito dell’artigianale

Partiamo da un dato: in Italia il buon artigianale esiste, ma non è tanto diffuso quanto si crede, o almeno tanto frequente quanto è frequente questa dicitura su molte etichette e cartelli. È facile giocarci, però, perché la definizione di prodotto artigianale ha dei confini ancora poco definiti.

Di norma la si attribuisce a prodotti che utilizzano materie prime locali o quasi, o comunque prodotti certificati. Poi la produzione deve essere contenuta. Ma soprattutto è vietato l’utilizzo di prodotti semilavorati.

Quindi come capirete, e se non lo capite ve lo dico io, le realtà che rispettano queste tre regole sono mosche bianche, rarissime e soprattutto non diffuse quanto la pubblicità vuol far credere, quindi sentitevi in diritto di dubitare di etichette scritte con caratteri rustici che gridano “artigianale”.

Ora che sta arrivando il Natale, poi, l’abuso ha un solo scopo: trarre in inganno voi che perseverate nell’errore di cui sopra e credete che i panettoni artigianali siano più buoni di quelli industriali.

Spiace guastarvi il gioco della caccia al panettone artigianale definitivo ma, se mettiamo a confronto un prodotto industriale e un prodotto di una pasticceria media di quartiere, vi assicuro che il prodotto industriale risulta superiore da moltissimi punti di vista, non ultimo il gusto e la conservazione.

E allora, come nelle relazioni, se vi fate prendere in giro il problema siete voi e il vostro desiderio di finto romanticismo.

È vero che nell’immaginario comune della produzione industriale i processi e i prodotti utilizzati sono di dominio pubblico e meno pieni di quel sintomatico mistero che andate cercando anche in cucina, rispetto a quello che accade durante la produzione in una pasticceria media. Ma io che in pasticceria ci ho lavorato vi assicuro che questo vi deve confortare: è solo un vantaggio che i processi siano conosciuti e conoscibili, anche se non sono poetici come il lancio delle uvette e dei canditi in una nuvola di impasto.

Anche in cucina le omissioni valgono come bugie e, siccome lo rinfacciate ai vostri poveri partner, dovete farlo anche coi panettoni.

Foto Pixabay

Lo zampino dell’industria

Non crediate infatti che l’industria non entri minimamente nelle piccole realtà artigianali, perché è quella che realizza e fornisce i prodotti semilavorati a moltissime pasticcerie insospettabili. Aromi artificiali e polveri premiscelate vengono trasformati dall’“artigiano’’ che li vende con un ricarico non da poco ma senza metterlo bene in evidenza.

Quindi perché non andare a rifornirsi alla fonte, se il prodotto finito ha, almeno in parte, la stessa base di quello che trovate sugli scaffali dei supermercati?

Non voglio fare un discorso politico, non voglio parlare delle multinazionali, della dialettica servo-padrone, della lotta operaia, dell’allevamento intensivo degli animali, dei coloranti e dei conservanti, della perdita della figura dell’artigiano.

Però è il caso di chiarire che il prodotto industriale è tendenzialmente superiore non solo nel rapporto qualità-prezzo, ma anche perché a un prezzo inferiore e a parità (a essere buoni) di gusto, ha vari punti di forza.

Il primo è il controllo igienico-sanitario assiduo e l’obbligo di analisi chimiche e batteriologiche sui prodotti con normative europee che danno linee guida precise, che prima del Covid sembrava ovvio ma oggi sapete cosa vuol dire.

Poi il processo produttivo standardizzato, che garantisce un prodotto sempre uguale e ripetibile. Se questo vi sembra noioso e vi siete fatti convincere del fatto che “artigianale è speciale, industriale è commerciale’’ sappiate che, dal punto di vista dei controlli, un prodotto sempre uguale permette di accorgersi se qualcosa non va quando lo si trova diverso.

Per abbattere anche l’ultimo dei miti dell’artigianale che usa prodotti di maggiore qualità, ricordatevi anche che, producendo in serie, l’industria ha accesso a un’economia di scala ed è in grado di acquistare quantità importanti di prodotti (anche di pregio) a un prezzo unitario inferiore, rispetto a una realtà piccola che spesso, soprattutto per gli aromi, deve ripiegare su prodotti chimici e semilavorati. Un esempio su tutti: le bacche di vaniglia.

Usate il buon senso

La verità dura e cruda è che in generale, l’industria culinaria non è necessariamente peggiore di un prodotto artigianale o, peggio mi sento, di una di quelle creazioni casalinghe prodotte da voi, che giocate a fare l’artigiano, che non sapete mezza regola di cucina, di conservazione dei prodotti, di temperature, di shelf life.

Tenendo bene a mente questi concetti, torniamo allora per un minuto nelle vostre cucine, che durante il lockdown sono state il teatro di guerra delle vostre pizze di marmo fatte con impasto casalingo e dove avete sfornato quel pane che state ancora digerendo dall’aprile scorso, anche se non lo ammetterete mai. Perché vi ostinate a riprodurre cibi che il buon senso suggerisce di comprare fatti?

La risposta è da sempre la stessa: non sapete decifrare la realtà e ponderare le priorità. Veramente pensate che i vostri Sofficini home made siano superiori e più sani di quelli della Findus?

Non sapete neanche le regole base della frittura per cui servite a tavola delle spugnette intrise d’olio, e le credete più sane di quelle mezzelune da sogno che tirate fuori dal freezer e sono pronte in cinque minuti?

Il vostro tempo vale di più, potete impiegarlo in modo diverso, quelle quattro ore che spendete per riprodurre fedelmente un prodotto iconico dell’industria, spendetelo per fregare l’industria.

Ovvero, imparando a preparare decentemente le tre cose che davvero vi cambiano la vita in cucina e che nessuna industria farà mai bene quanto voi, quindi se le comprate fatte siete davvero i servi sciocchi del consumismo.

Imparate le cose giuste

Siccome sono buona, trovate in fondo a questa pagina i link alle mie ricette. Il purée di patate è un’arte, farlo bene non è semplice, ma anche quello fatto male batte l’industria 10 a 0.

Foto Pixabay

I carciofini sott’olio, scusa, lobby dei sottoli. Per me un carciofino fatto da chi lo sa fare in casa, e con questo intendo non un barattolo killer pieno di botulino, batterà sempre qualsiasi carciofino imbevuto di aceto, che poi avete anche il coraggio di mettere sulla pizza capricciosa imbevendo pomodoro, uovo e prosciutto.

Il ragù. Mi costa dirlo, perché alcune marche mi hanno salvato la vita nelle nottate più oscure e disperate, ma nessun ragù pronto sarà mai paragonabile a quello cotto cinque ore a fuoco basso.

C’è una terra di mezzo dentro di me: la pasta sfoglia, un abisso grande quanto la differenza fra quella industriale e quella fatta da un addetto ai lavori, o anche da qualcuno che riesca a seguire dei passaggi di questa preparazione fatta di pieghe e di attese in modo pedissequo e maniacale.

Da un lato mi rendo conto della svolta che l’industria ha dato alla cucina e a quelle torte rustiche crude che portate al pranzo di Pasquetta, dall’altra mi chiedo che vita sarebbe senza una sfoglia fatta in casa o artigianalmente.

È sempre una questione di priorità e di propriocezione, se il tempo che risparmiate utilizzando il magico rotolo del banco frigo è proficuo per voi e non nuoce a nessuno vi autorizzo a ricorrervi, invece se come temo sprecate tempo ad ammorbare gli altri coi vostri problemi inutili, fatevi un’amica: la sfoglia fatta in casa, vi fa distrarre, è soddisfacente vederla crescere in forno, e vi fa sentire semi-dei della cucina, se vi viene bene, chiaro.

Mi sto dimenticando il risotto dite? No, su questo ancora non ho preso una posizione, perché alcune marche di risotti pronti purtroppo sono nettamente superiori a quella colla di riso che fate voi.

Per lasciarvi con una morale, ricordate che fatto in casa è buono, ma dipende dove abitate e chi ci trovate dentro a questa casa.

Le mie ricette:

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