Barry Gifford, autore di quel Wild at Heart: the Story of Sailor and Lula, pubblicato in Italia da Bompiani, da cui David Lynch ha tratto Cuore selvaggio, grazie a quel film godeva di una licenza speciale. Lynch amava a tal punto il romanzo da permettergli di criticare impunemente gli altri suoi film. Gifford non è mai riuscito a incrinare la mia devozione a Velluto Blu, ma sentirglielo demolire con garbo era piuttosto divertente.

Qualche anno dopo la coppia si è ricomposta per Lost Highways, un altro gioiello. Solo per Cuore Selvaggio però lo scrittore è riuscito in qualche modo a “giffordizzare” il regista, offrendo binari insolitamente lineari a una creatività incontenibile, e spianando la strada per quella Palma d’oro di Cannes nel 1990 che siamo in tanti a ricordare con emozione. Sembra incredibile che l’icona romantica degli anni Novanta sia quel «Ti fidi di me? Mi fido di te!» sulla prua del Titanic. L’iceberg è una bazzecola di fronte al rovente, spudorato romanticismo di Cuore Selvaggio, supportato da un erotismo e da un humour noir corrosivi, certo più affini alle sensibilità europee che a quelle delle grandi platee americane.

Quella Love me tender cantata sul cofano di una decappottabile è un’apoteosi pop senza uguali. Il romanticismo di Lynch resiste al tempo perché è fatto di carne, sangue, ormoni ma soprattutto della materia di cui sono fatti i sogni. E a fabbricare i nostri sogni è il magma di suggestioni che ci ha colonizzato l’inconscio: Elvis e il Mago di Oz, le fiabe paurose e quella giacca di pelle di serpente che era simbolo di libertà nel film con Marlon Brando e Anna Magnani tratto da Tennessee Williams. Non sono wild i cuori ragazzi di Nicolas Cage e Laura Dern, è wild il mondo intorno.

Lula lo dice. «È un mondo senza pietà che racchiude dentro di sé un cuore selvaggio». Chiunque si metta, per amore, al volante di un’auto in fuga va incontro a mille iceberg bonsai, a mille naufragi parziali: è la vita. Non c’è bisogno di una nave sfigata per creare empatia. Con Lynch non siamo nel West de L’uomo che uccise Liberty Valance: se la leggenda diventa realtà, vince la realtà.

E quando riesci a catturare il sentimento della realtà da visionario sfrenato, allora meriti il podio dei classici. Cuore Selvaggio è una cattedrale blasfema: capolavoro per Bernardo Bertolucci, che capitanava nel 1990 la giuria di Cannes, ma silurato da tutti i grandi premi americani, compresi gli Independent Spirit Awards, che di norma sono più tolleranti. È reo di inquinare l’amore romantico con il sesso hot, il road movie canonico con gli incubi di una nazione, la fiaba classica con la violenza più splatter, i santini di Elvis con gli scarafaggi del quotidiano. È un falò di tabù.

Eppure di tutti i film di Lynch è il più facile, tra virgolette, il più comprensibile per le grandi platee. Basta lasciarsi guidare dal fuoco che si sprigiona, a cadenza fissa, da zolfanelli, zippo antidiluviani, memorie di omicidi sepolti: è una metafora, e non è fuoco amico. Se ti avvicini troppo al fuoco bruci: lo capiscono tutti. È un film rosso. Ma non è il rosso del tendaggio che da sempre separa, per David Lynch, la realtà dal suo lato oscuro. La scrittura di Barry Gifford lo forza a incardinare il colore a oggetti meno simbolici e più materiali: non solo fiamma e sangue, anche rossetti, sinistri artigli laccati, le scarpette rosse di Dorothy. Il romanzo fissa gli argini al genio, e gli mette le ali. Lo stile è salvo e Lynch, non Cameron, è il re dei romantici. Love me tender, love me sweet. Da lucciconi. E senza naufragi.

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