Quando mi è stato proposto di scrivere un pezzo sull’amicizia maschile è stato spontaneo chiedermi chi fossero i miei amici da adolescente. La risposta, tra l’altro identica se applicata ad oggi avendo io praticamente solo amiche, avrebbe dovuto dissuadermi dal proseguire della scrittura ma, si sa, la noncuranza è una delle cose da maschi più diffuse.

In effetti, la prima parte della mia vita è stata segnata dalla consistente assenza del “migliore amico”, unico custode delle insicurezze dei giovani che affrontano la tribolante rivoluzione ormonale.

Questa posizione marginale ha avuto alcune conseguenze: insieme alla diffidenza di una schiera di ragazzini che si chiedevano perché io rifiutassi con un certo atteggiamento di snobistica superiorità il rituale del pattugliamento cittadino alla ricerca di qualche emozione forte come la prima sigaretta (che per arrivare tra le mie mani avrebbe dovuto aspettare qualche altro anno), ho avuto la possibilità di chiedermi cosa rendesse questa pratica così interessante per molti dei ragazzi che conoscevo.

Improvvisamente un’idea platonica

Riflettendo sull’idea platonica di amicizia, mi è venuto in mente che la principale istituzione deputata alla creazione di legami è la scuola. Nonostante il fine dichiarato non sia quello di mettere in relazione le persone, la stessa idea di “classe” rende la socialità il fine più importante benché il meno visibile.

Il concetto di cultura collegiale, quella che – almeno teoricamente – dovrebbe emergere dalle discussioni degli studenti con gli insegnanti, affonda le sue radici in un genere letterario specifico: il dialogo platonico. Fu proprio Platone ad avere l’idea che fosse più semplice imparare/insegnare qualcosa se lo si fa insieme ad altri diversi da, ma allo stesso tempo simili a sé.

Prendendo in prestito la famigerata formula della Settimana Enigmistica, “forse non tutti sanno che” nel novero dei testi che in genere tormentano i pomeriggi di ogni liceale ce n’è uno che rischia di passare inosservato: il Liside.

Già nel IV a.C. i maschi si interrogavano su come definire l’affetto che li legava: Platone, come un esaminando rassegnato, decreta l’impossibilità di descrivere precisamente l’amicizia interrompendo il suo dialogo senza prendere alcuna posizione. Ignavo. Fortunatamente, grazie alla sua consueta umiltà, sarà Aristotele a risolvere il problema: le persone si aggregano per somiglianza, sempre in coppia, ma solo a patto che nessuno dei due ottenga qualche vantaggio dalla relazione con l’altro.

Granitico, ma efficace. Così efficace che su questo modello sono state ricalcate la maggior parte delle rappresentazioni delle coppie di maschi a lui successive, compreso Aristotele stesso.

Nella Scuola di Atene, incantevole affresco di Raffaello, insieme a Platone assume quella posa un po’ plastica in cui tengono rispettivamente il palmo della mano in basso il primo, in alto il secondo, diventando così due opposti in una evidente similarità.

Binario triste e solitario

Una cosa è chiara: il feticismo per la monogamia è così radicato che è presente e saldo anche nei rapporti che, solo sulla carta, non lo prevedono. D’altronde, se non fosse così, perché qualcuno dovrebbe chiederci di individuare il nostro “migliore amico” già prima dell’età della ragione? Perché uno? Perché non due, tre o mille?

Questa idea, poi, è resa ancora più implacabile dalla straordinaria capacità di replicarla che la cultura occidentale ha avuto nel corso del tempo. Mi viene in mente che, in effetti, non è contemplata la separazione dal grande amico neanche quando la morte fa la sua comparsa.

In fin dei conti, Le ultime lettere di Jacopo Ortis non è altro che un modello ideale e indiretto del diario di Tom Riddle; una specie di Horcrux che impedisce di dimenticare un soggetto tenuto in vita solo dalla memoria del compagno che lo trattiene conservandone le lettere.

Fratelli per procura

Mentre scrivevo mi sono reso conto di una cosa a cui non avevo mai pensato. Dalla letteratura classica alle serie che oggi si muovono sugli schermi dei nostri pc, i migliori amici maschi spesso suggellano il proprio legame attraverso la condivisione di un elemento specifico: la sorella.

Tito e Gisippo, inseparabili protagonisti di una splendida novella del Decameron che gli studenti che assistono a qualcuna delle mie lezioni hanno imparato comprensibilmente a detestare, a un certo punto forzano i propri alberi genealogici a congiungersi quando il secondo sposa la sorella del primo.

È evidente che le sorelle sono il sistema attraverso cui imparentarsi, e certamente Boccaccio non è stato l’ultimo a usarlo. Harry Potter, in una forzatura che altrimenti non avrebbe avuto spiegazione, sposa la sorella del suo migliore amico, che a sua volta sposa Hermione, sorella d’anima di Harry. Un po’ il modello branduardiano della fiera dell’est, ma calato nel contesto parentale.

Monique Wittig, verso la quale la mia gratitudine non potrà mai essere sufficiente, sicuramente non conosceva Harry Potter durante la scrittura de Il pensiero eterosessuale, ma la sua descrizione del modo in cui le donne servono a saldare i punti di aggancio di un ambiente fondato su rapporti tra maschi, forse, potrebbe essere adatta anche a questo sistema narrativo.

L’amore non è bello se non è litigherello

Un’altra regola delle rappresentazioni delle amicizie maschili prevede che l’uno deve avere almeno un carattere direttamente opposto rispetto all’altro. Credo che questo sia vero indipendentemente dalla sfera che decidiamo di analizzare: fisica, morale, intellettuale, politica. Harry ha il coraggio, Ron la codardia; Achille l’ira, Patroclo la mitezza; Tom è alto e tonto, Jerry è basso e furbo; Amleto irrazionale, Orazio razionale.

Questa peculiarità fa sì che spesso esista, come in tutti i buoni rapporti coniugali, un momento di crisi che serve a far capire a entrambi che non sono, come avrebbe detto Aristotele, l’uno il riflesso dell’altro, o come avrebbe detto Boccaccio, l’uno “l’altro sé” dell’altro.

In funzione di questa regola, è chiaro che Buzz Lightyear non possa essere immediatamente il migliore amico di Woody: occorre il conflitto per comprendere che le loro diversità, evidenti anche nella loro rappresentazione fisica, sono più utili a completarli che a dividerli. E questa caratteristica è vera tanto negli amici, quanto nei nemici.

Non è un caso, credo, che nelle storie sia sempre ben evidente che a separare gli eroi dagli antagonisti non sia il carattere – sempre sostanzialmente simile – quanto le intenzioni. L’antagonista è quel personaggio che, in altre circostanze, avrebbe potuto essere il migliore amico del protagonista, ma che per forze a lui estranee si è posto aldilà del confine dell’affetto.

Non è certamente un’invenzione di Rowling la sostanziale identità tra Harry e Voldemort. La stessa tensione che li lega legava Troilo e Diomede, rivali in guerra e in amore nel Filostrato di Boccaccio, così come lega ancora oggi Zio Paperone e Rocker Duck.

Una conclusione

Giunto a questo punto è chiaro che l’amicizia maschile abbia delle regole, tra l’altro non troppo diverse da quelle che Andrea Cappellano prescriveva agli innamorati nel più famoso trattato del Medioevo sull’amore.

Come il femminile, per il maschile esiste un paradigma relazionale che non riguarda solo i rapporti eterosessuali, ma che è diffuso in ogni aspetto dell’affetto. Le rappresentazioni, me lo ha insegnato una persona che qualche anno fa ha cambiato il mio modo di vedere praticamente ogni cosa e trasformandomi così in un polemico impenitente, nascono dalle idee di chi le produce e riproducono le idee di chi le ha prodotte.

Prendendo in prestito il titolo di un bel libro di Biemmi e Leonelli, due ricercatrici in pedagogia, tra le gabbie di genere esiste non solo la regolamentazione dell’amore, ma dei sentimenti in tutte le loro forme. D’altronde, il concetto di amore non è la più fortunata tra le normazioni dell’affetto?

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