La battuta più infelice che si possa fare di questi tempi a uno sceneggiatore (ho molti amici sceneggiatori) è: ma cosa scioperano a fare, i vostri colleghi americani, se le idee tirate fuori nelle ultime due stagioni di blockbuster sono Top Gun e Indiana Jones?

Lo so – faccio questo di mestiere – che c’è un mondo, oltre gli ormai pochi titoloni che provano a tenere banco al box office globale. Che c’è un universo (multiverso: ma su questo ci tornerò più avanti) di serie, di marchi da sfruttare, di produzioni indie che non vede nessuno (io sì, tutte).

Che, semplicemente, sono cambiati i luoghi di fruizione e dunque sta cambiando l’utenza, e nei prossimi anni assisteremo a un cambiamento ancora più radicale, se possibile. (E anche che, parentesi, chi fa qualsivoglia mestiere – lo sceneggiatore, l’architetto, il panettiere – dev’essere pagato quello che gli spetta; non ho messo il giornalista perché nell’editoria i soldi sono proprio finiti, manco uno sciopero potrebbe sconquassare la situazione.)

Questa premessa per dire che è uscito il nuovo Indiana Jones, il quinto e ultimo (ma il quarto per molti è l’Indy che non esiste: anche di questo parlerò più avanti), sottotitolo Il quadrante del destino. È l’ultimo e insieme il primo non diretto da Steven Spielberg.

Al suo posto c’è James Mangold, specialista in eroi quando sono presi nel loro momento, come si dice in gergo, crepuscolare: vedi Wolverine nel bel Logan, il suo film migliore per distacco. Ma Mangold ha firmato anche Quando l’amore brucia l’anima (titolaccio italiano di Walk the Line, biopic di Johnny Cash/June Carter starring Joaquin Phoenix e Reese Witherspoon, che vinse l’Oscar), il brutto remake di Quel treno per Yuma con Russell Crowe e Christian Bale, la pessima action comedy Innocenti bugie (in originale Knight & Day) con Tom Cruise e Cameron Diaz, che poco dopo comprensibilmente lasciò il cinema, e l’opaco Le Mans ’66 - La grande sfida, storia di Formula 1, ma non certo rombante, ancora con Bale insieme a Matt Damon. Insomma, un mestierante di Hollywood di solido mestiere ma senza immaginario, personalità, riconoscibilità.

Quale pubblico?

Dunque, ricapitolando, abbiamo: un soggetto tirato fuori per mancanza d’idee (Indiana Jones) che nessuno, possiamo dircelo, aspettava con chissà quale trepidazione, nemmeno i più accaniti nostalgici; e un regista (James Mangold) che non solo non è Spielberg, ma che è uno di quei nomi che chiami alla bisogna, che vanno bene un po’ per tutto. Indiana Jones, invece, era la creatura di Steven Spielberg e George Lucas, che qui ovviamente restano come produttori.

Era un giocattolone figlio degli anni Ottanta che univa spettatori adulti e infanti, solleticava il gusto per il cinema d’avventura di Errol Flynn dei cinefili e le gesta ludiche dei nuovi videogiocatori, e imponeva come “definitiva” la star di Star Wars (scusate), capace di passare da una saga bilionaria all’altra (e tutte “made in Lucas”) facendo dimenticare di essere stato Han Solo prima di diventare l’archeologo Henry Walton Jones Jr., e restando però sempre Harrison Ford.

Ecco, forse l’unica chiave per leggere quest’ultimo capitolo di Indiana Jones è il suo (non) protagonista. Dico non protagonista perché Indiana Jones – e dunque Harrison Ford – qui sembra diventare una spalla: un po’ per età (Ford l’anno scorso ha compiuto ottant’anni, anche se pare impossibile), un po’ perché, consapevolmente o no, pare sentirsi un po’ fuori rispetto al tutto. Rispetto a uno spettacolo che non si sa più per chi è confezionato: per i nostalgici di ieri? Mah.

Per i giovanissimi di oggi che ancora, anche se (per) poco, tengono in piedi il cinema nelle sale? Uhm. Teoricamente sarebbe pensato per entrambi, ma il risultato non sembra mantenere l’equilibrio che tiene insieme i due mondi, le diverse generazioni, il cinema di ieri e quello di oggi.

Ovunque – soprattutto da noi, ma anche fra la stampa Usa – stanno massacrando questo Quadrante del destino. Anche più del dovuto, per quanto mi riguarda, e non lo dico solo perché non mi piace stroncare i film; neanche quelli che nascono (forzatamente), vivono (ormai pochissimo) e muoiono (praticamente in culla) per ragioni ed esigenze di puro intrattenimento.

Quando leggo giornalisti americani inveire contro l’ultimo Marvel come se stessero recensendo L’ora del lupo di Bergman, ormai mi viene da ridere. (Il fatto è che i giornalisti, sempre più giovani, che scrivono di cinema e di serie Bergman o chi per lui spesso non l’hanno proprio visto.) Non mi piace stroncare i film, dicevo, e questo Indy qua e là mi ha pure divertito. Ma certo, ripeto, c’è quel problema lì: per chi è pensato e realizzato tutto questo?

La trama

La trama, in breve, per chi non l’ha ancora visto o non lo vedrà mai: Indiana Jones, dopo aver perso il figlio (hanno fatto morire Shia LaBeouf, visto nell’episodio numero 4, perché è un attore troppo “scandaloso” da ingaggiare oggi) e aver archiviato il matrimonio con la storica compagna Marion, è parcheggiato in un college di New York City a spolverare vecchi reperti.

La figlioccia Helena (Phoebe Waller-Bridge, per tutti “quella di Fleabag”) lo contatta perché sta cercando il quadrante di Archimede, di cui lui potrebbe/dovrebbe sapere qualcosa. Da qui s’avvia la trama che torna ai soliti nazisti, ficca dentro anche la Nasa, le rivolte del Vietnam in un corteo che serve più come sfondo di un inseguimento fra moto e cavalli, i soliti detour per il mondo, da Tangeri a Siracusa (dove però c’è la cattedrale di Cefalù, come nella Taormina di The White Lotus).

E poi, senza spoiler, un salto in una specie di multiverso che porta a un’altra dimensione spaziotemporale, e che – con meno ironia di quanto avrebbe forse voluto chi il film l’ha scritto – strizza l’occhio alle moltiplicazioni di mondi e personaggi del nuovo immaginario Marvel, e di titoli a loro volta derivativi (chiedo scusa per l’orribile aggettivo oggi molto di moda) come Everything Everywhere All at Once.

Come a dire che, oggi, nessuno di questi brand esiste se non incluso in un multiverso in cui vale tutto, perché altrimenti questi soggetti e oggetti di per sé non valgono niente, come la leggendaria lancia di Longino che Indiana Jones trova all’inizio del film e che naturalmente si rivela un fake.

Nessuna sincerità

In un cinema di larga scala che, diceva, punta solamente o quasi su brand sicuri (vedi l’imminente Barbie, stramba operazione d’autore – Greta Gerwig e Noah Baumbach – che però riesuma un marchio tra i più celebri al mondo presso tutte le età), le operazioni che riescono davvero sono pochissime: una fra tutte, il citato ritorno di Top Gun.

Ma lì il merito va dato soprattutto a Tom Cruise, un uomo di cinema come pochi altri, capace di sopravvivere alle diverse epoche mantenendo una visione ormai classica del mezzo e del prodotto finale (lo stesso, mi sento di dire, succederà col nuovo Mission: Impossible, in uscita il 12 luglio: altro giro, altro brand); e per di più in grado di fornire quel grado di artigianalità e spontaneità che alle operazioni a tavolino di oggi spesso manca.

Ecco, questo è il limite maggiore del nuovo Indiana Jones, pur pieno di elementi che lo rendono un blockbuster sopra la media: per dirne uno, gli effetti digitali che ringiovaniscono Harrison Ford nel prologo, evoluzione della Cgi ma anche preludio a quello che potrebbe diventare, nel bene e nel male, la Hollywood governata dalla Ai di un futuro neanche così remoto.

Ma ecco, il limite vero e, per molti versi, grave è la totale assenza di sincerità, di spontaneità. Persino il quarto capitolo che citavo all’inizio – Il regno del teschio di cristallo del 2008, quello con Cate Blanchett cattivissima col caschetto di Louise Brooks, quello disconosciuto anche da molti fan della saga – usciva dalla testa e dal cuore di Spielberg seppure in modo scombinato, naïf, certamente imperfetto, ma nella misura in cui erano imperfetti anche Il tempio maledetto, L’ultima crociata, addirittura I predatori dell’arca perduta: se a noi oggi sembrano titoli senza macchia, è per la solita nostalgia, è perché siamo vecchi.

Ecco, in quest’ultimo Indiana Jones sembra tutto forzato: l’idea di mandare in pensione Harrison Ford; il passaggio di testimone ideale a una Indy donna, la cui interprete è per giunta simbolo del nuovo sguardo femminile nell’audiovisivo globale, con la speranza di de-mascolinizzare una saga nata “maschia” (per gli stessi motivi, la stessa Waller-Bridge era stata ingaggiata tra gli sceneggiatori dell’ultimo Bond, No Time to Die); il sidekick bambino stavolta del tutto inutile; il cattivone nazi; le ricostruzioni di tombe antiche che sembrano uscite da Gardaland. È tutto uguale a prima, è tutto fuori dal tempo. Dal nostro.

Resta un finale – non vi spoilero nemmeno questo – che ci dice cosa avrebbe potuto essere l’ultimo Indiana Jones se l’avesse firmato lo stesso Spielberg. Forse una specie di Ponti di Madison County solo un po’ più esotico, un film crepuscolare per davvero, un’elegia non funebre come, in fondo, pare questo Quadrante del destino, ma piena della malinconia di cui è fatto il cinema, di cui erano fatti i primi Indiana Jones, sogni di bambini troppo grandi che volevano continuare a giocare, come volevano loro.

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