Barbara Millicent Roberts, di Willows, Wisconsin, 63 anni, ha età e nome da casalinga disperata americana ma guai a sottovalutarla. Perché la sua è la biografia che la Mattel inventò per Barbie: la bambola probabilmente più venduta al mondo, sicuramente la più amata e la più detestata.

L’icona globale su cui si è scritto di tutto, su cui si sono cimentati saggisti, sociologi e antropologi, quella cui è stato imputato di aver devastato l’autostima di milioni di bambine con la sua irraggiungibile perfezione estetica. La prima, però, a dotarsi di un toy boy, in quale altro modo leggere il suo sciapo fidanzato Ken? Uno sbiadito comprimario, accessorio non più importante di una borsetta, che infatti non ha mai voluto sposare. La stessa Barbie che ora, nell’ennesima reinterpretazione di sé stessa (è stata astronauta, ha “corso” per la Casa Bianca) diventa simbolo di un giovane femminismo irridente, così sicuro di sé da non aver bisogno di digrignare i denti.

Sovvertire le aspettative

Si chiama “Barbiecore”, parola che definisce l’estetica ispirata alla bambola, ed è il fenomeno che sta facendo di Barbie e del suo colore feticcio, il rosa, le più spiazzanti nuove icone femministe. Impazza su social in ascesa come TikTok e in calo come Instagram, occupa dibattiti e passerelle, ma il picco deve ancora arrivare. Data prevista per l’Italia: 20 luglio 2023, quando sarà nei cinema Barbie. Film firmatissimo, perché diretto da Greta Gerwig, regista di Lady Bird e Piccole donne.

«Il suo lavoro è una riflessione costante sulle tematiche femministe», dice Simona Segre-Reinach, docente di fashion studies all’università di Bologna. «Sarà interessante vedere come ha lavorato su questo in particolare». Gerwig ha raccontato così la sfida di misurarsi con Barbie: «Eccitante perché terrificante. Mettere mano alla sceneggiatura mi ha dato le vertigini. Da dove cominciare, quale storia raccontare? Le cose migliori, però, nascono quando un progetto ti terrorizza e pensi che potrebbe stroncarti la carriera. È allora che ti dici, debbo farlo».

A volere Gerwig come regista è stata Margot Robbie, che il film lo interpreta e produce, con la sua LuckyChap Entertainment. Altra donna che sarebbe errore grave sottovalutare perché bellissima, una specie di replica umana di Barbie. Un’idea chiara su come rileggere l’eterna biondina ce l’ha: «Voglio sovvertire ogni aspettativa», ha dichiarato.

Femminismo e femminilità

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Cos’hanno visto Robbie e Gerwig nel mito di Barbie? Quello che molte giovani femministe ci vedono: il diritto a essere come si vuole. Anche molto femminili, se si desidera. Civettuole, perfino. Ti piacciono il rosa, i tacchi, i vestiti che fanno ragazzina, le mini? Nessuno ha diritto di negarteli. In uno spettacolare rovesciamento culturale, oggi l’estetica “bimbo” (slang per donna bella e scema) si fa sberleffo di certo femminismo sotto sotto misogino, arcigno nel predicare cosa non si dovrebbe mai fare: depilarsi, truccarsi, piacersi.

Se tutti i corpi hanno diritto a sentirsi belli, come vuole la body positivity, perché proprio sul corpo di Barbie dovrebbe accanirsi lo stigma? Quale teorema ha dimostrato che soltanto sopra la taglia 46 si può essere intelligenti? Quale algoritmo ha stabilito che chi veste di nero è superiore intellettualmente, forse anche eticamente, a chi predilige il fucsia? Testimonial personaggi come l’attrice Anne Hathaway, la cantante Lizzo o l’icona lgbtq Lil Nas X, nell’estetica Barbiecore il femminismo si incrocia con diversità, inclusività, politica.

Colore controverso 

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«Il rosa è il colore più controverso perché lo associamo a femminilità stereotipata, ma non è sempre stato così. Nel 2018 la storica della moda Valerie Steele ha raccontato con il libro e la mostra Pink: the History of a Punk, Pretty, Powerful Color al Fashion Institute of Technology di New York le sue diverse valenze», dice Simona Segre-Reinach. «Nel Settecento, ad esempio, era considerato colore maschile. La stessa associazione rosa/femmina, azzurro/maschio è recente, contrariamente a quanto crediamo: nel primo Novecento in America il rosa, in quanto colore squillante, deciso e forte, era destinato ai maschi, il pallido azzurro invece alle femmine. Insomma, non è un colore scontato. Oggi è addirittura diventato bellicoso. È associato alla ribellione femminile: basti pensare all’uso che ne hanno fatto le Pussy Riot, o ai sari rosa indossati dalle attiviste del gruppo Gulabi Gang dell’Uttar Pradesh».

Gulabi Gang (gulabi vuol dire rosa in hindi) è il movimento nato anni fa in India per protestare contro la violenza domestica e in generale quella sulle donne, e proteggere attivamente chi ne è vittima. Le donne che ne fanno parte portano in mano un bastone di bambù per picchiare eventuali aggressori, e indossano sari rosa per simboleggiare la sottovalutata forza delle donne. Stesso sapore bellicoso per l’ormai celebre pussyhat, il cappellino rosa indossato dalle partecipanti alla marcia di Washington del 2017 contro razzismo e sessismo di Trump, nel primo giorno del suo insediamento.

«Il rosa è interessante da studiare, anche e non solo nel suo rapporto con la moda: pensiamo al rosa Schiaparelli, o al brand Valentino che recentemente ha sostituito il rosa all’iconico rosso Valentino. Il Barbiecore contiene tutto questo, e le giovani femministe oggi rivendicano un concetto chiave sul diritto alla moda espresso nel 1985 da Elizabeth Wilson nel testo Adorned in Dreams. Fashion and Modernity. Per Wilson, il femminismo non doveva indentificarsi con trascuratezza», prosegue la docente di fashion studies. «Il suo era un richiamo alla sostanza delle cose, che apre a riflessioni: cos’è il femminismo oggi, in un tempo in cui colore e modo di vestire hanno valenze fortissime? È politica. È maschile, perché lo condividono molti ragazzi. È trasversalità, supera il genere».

Vietato, dunque, farsi liquidare come “hyper femme” (l’epiteto rivolte a donne ritenute “troppo femminili” nel vestirsi e apparire) se si condivide la tendenza Barbiecore. Tanto più se si fa parte di quelle giovani generazioni di filosofia Yolo, acronimo di You Only Live Once: si vive una volta sola, cerca di godertela al massimo. Come nel motto di Barbie: You can be anything, Puoi essere tutto. Vestita, nel caso, di rosa.

Messaggi immediati

Ce n’è abbastanza per rendere il film di Greta Gerwig molto atteso, e lo è. È materiale da maneggiare con attenzione, non a caso prima di arrivare al taglio finale ha avuto non poche traversie: il primo annuncio era stato dato nel 2009, negli anni successivi hanno dato forfait altre due possibili protagoniste, Amy Schumer e Anne Hathaway.

Margot Robbie è entrata in scena nel 2019. Accanto a lei, come Ken, avrà Ryan Gosling (già protagonista di La La Land, Drive, First Man, The Gray Man), ma nel cast sono previsti altri attori (tra cui Hari Nef, transgender) nei ruoli di Ken e di Barbie. Per i costumi la scelta è caduta sull’inglese Jacqueline Durran, che ha all’attivo otto nomination e due Oscar effettivamente ottenuti, per i film Anna Karenina e Piccole donne (diretto da Gerwig). Ancora fumosi, però, i particolari sulla trama, che al momento si può sintetizzare così: la bambola Barbie viene espulsa da Barbieland a causa delle sue “imperfezioni”. Ma il suo esilio nel mondo reale le farà scoprire che la perfezione può essere trovata soltanto dentro di sé.

Un tema acchiappa-ventenni, ed è probabile che ai giovani Zeta questo mondo total rosa potrà piacere molto. «Certi fenomeni culturali vanno letti in sintonia con l’attuale comunicazione digitale», conclude Simona Segre-Reinach. «Nell’era di Instagram il colore è fondamentale per segnalare movimenti o brand, perché potente e immediato. E l’approccio alla comunicazione degli Zeta è, come il rosa, fortemente simbolico, istantaneo, diretto. Pensiamo al gesto di tagliarsi i capelli delle ragazze iraniane, o all’uso di un foglio A4 bianco nelle proteste in Cina contro le restrizioni imposte dal regime per la pandemia da coronavirus e la censura (il bianco nel paese è il colore del lutto). Il colore aiuta la velocità del messaggio».

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