Nel nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, L’età fragile, Einaudi 2023, a riflettersi l’una negli occhi delle altre sono tre generazioni. È un dialogo faticoso, il loro, ma che ciascuno, in modi differenti, tenta. E, nel farlo, i ruoli cadono: i genitori tornano figli, i figli si ribellano alla condizione di subalternità.

A raccontarla, questa conversazione complessa, è Lucia, fisioterapista, vive da sempre tra gli Appennini abruzzesi, non è mai riuscita ad abbandonarli: ha un ex marito che vive a Torino e una figlia che da Milano è tornata scappando, dopo un evento che l’ha traumatizzata.

La dedica di L’età fragile è a “tutte le sopravvissute”. Come mai?

Le sopravvissute spesso vengono dimenticate, ché con la loro stessa esistenza seguitano a interrogarci su ciò che è capitato loro: non riusciamo a sopportarlo e preferiamo rimuoverle. Ma io trovo sia ingiusto.

L’età fragile ha, al centro, un caso di cronaca reale, il delitto del Morrone: un duplice femminicidio avvenuto nel 1997. Perché?

Ero in treno con un amico, e guardavamo le montagne innevate che disegnano una dorsale attorno ai luoghi in cui abito da sempre, quando lui, indicandone una, mi ha detto che quella era la montagna, la montagna in cui era accaduto. Mi sono resa conto, quindi, di ricordare poco di quei femminicidi, e mi sono chiesta perché. Ho sempre avuto la tendenza a legare eventi importanti a ricordi intimi – saprei dirle ad esempio dove mi trovavo e cosa stavo facendo quando le Torri Gemelle furono attaccate – ma di quell’evento ricordavo poco.

È avvenuto nei pressi di casa sua?

La montagna in cui sono state uccise le ragazze la vedo dalla finestra.

È riuscita a darsi una risposta, sulla fatica nel ricordare?

Mi sono detta di aver preso parte a un rimosso collettivo. Nel primo periodo, dopo quei femminicidi, in zona non si parlò d’altro – non era accaduta mai una violenza del genere – lì la concitazione fu fortissima. Ma dopo poco avvenne una rimozione: un evento così terribile, osceno confliggeva con la narrazione che abbiamo sempre avuto di noi stessi.

In L’età fragile ci sono dei temi di cui aveva già raccontato, nei suoi libri. Uno è il ritorno. Che rapporto ha lei con il ritorno? In fondo, l’Abruzzo non l’ha mai lasciato: non è mai tornata.

In effetti, è strano: nonostante non me ne sia mai andata dalle zone in cui sono nata, del tornare ho scritto spesso. Per chi abita posti come questo, così lontani dalle grandi città, porsi una domanda simile è naturale, e io l’ho fatto spesso. Vado via o resto? Se me ne vado, e vivo fuori per un po’, poi torno o rimango lì? La gente che abita luoghi come il mio, l’Abruzzo, si sente sempre un po’ marginalizzata. Questo da una parte instilla una sorta di senso d’inferiorità e dall’altra il senso di colpa per non essere mai riusciti ad andarcene.

Amanda dice qualcosa del genere a sua madre.

Sì, le dice, appunto, che non è mai stata in grado di andar via, glielo rinfaccia, come l’ex marito le rinfaccia di non essere riuscita a uscire dal ruolo di figlia.

In effetti, Lucia sembra più a suo agio come figlia che come madre, tant’è che non riesce a star vicino ad Amanda nei momenti complicati: quando scopre che la ragazza è stata aggredita a Milano, o che dorme con la luce accesa. Lucia è rimasta figlia, quindi si blocca quando dev’essere madre?

È così. Tant’è che un giorno va a trovare il padre mentre lui sta curando l’orto e, davanti all’accudimento che riserva alle sue piante di pomodoro, lei si trova a desiderare le stesse cure.

Che donna voleva raccontare, dunque?

Una che non riesce a far aderire su sé stessa i vestiti di madre, e che si pone domande sulla genitorialità molto complesse e angosciose.

Lucia, difatti, dice che oggi le mancherebbe il coraggio di avere dei figli.

Lo dice a una sua amica, perché certe cose non le puoi raccontare a chiunque, purtroppo. Qualche anno fa c’è stato un dibattito interessantissimo proprio su questo: madri che mettono in dubbio la decisione stessa di aver avuto dei figli. L’ho trovato importante.

Lei se l’è posta, questa domanda?

Certo. E Lucia, nel romanzo, è mia portavoce.

Si sente molto figlia pure lei, come la sua personaggia?

Su questo ho fatto tutto un lavoro durato anni che mi ha permesso di emanciparmi dall’ambiente d’origine, affrancarmi da un tipo di patriarcato duro, difficile: quel patriarcato primitivo, rurale. In tal senso, ho lavorato per liberarmi da un mandato famigliare che sentivo pesarmi addosso.

Da siciliano che vive al nord, le chiedo: la pressione di cui parla aveva a che fare con il dover restare nei luoghi di origine per accudire i genitori?

Certo, e forse, mi dico oggi, se non me ne sono andata è perché, per certi versi e in modi che io stessa fatico a capire, ho ubbidito a questa richiesta.

Una richiesta esplicita?

No, sempre implicita. L’ho molto combattuto, da giovane donna, l’obbligo di divenire, un giorno, il bastone della vecchiaia dei miei genitori. Ho lottato, mi sono ribellata contestando una sorte che sentivo mi fosse stata cucita addosso, ma, mi rendo conto oggi, in qualche modo, alla fine, mi sono arresa, aderendo a delle richieste che reputavo inaccettabili, irricevibili.

Come se lo spiega?

Non credo che trovare una spiegazione sia necessario, è parte delle mie molte contraddizioni; e io le contraddizioni le rivendico.

Il titolo del romanzo sembrerebbe riferirsi a un’età specifica, a una sola. Qual è stata per lei l’età fragile?

In retrospettiva, credo che ogni età per me abbia avuto delle fragilità.

La fragilità dell’infanzia?

La solitudine. La mia famiglia abitava in un posto molto isolato, attorno a noi solo boschi per chilometri, e ho passato quegli anni circondata da adulti duri.

Dell’adolescenza?

La sfida con i coetanei. Ci siamo trasferiti a valle, a un certo punto, e nel mio affacciarmi al mondo mi sono scoperta inadeguata, un disagio dolorosissimo. Mi sentivo inferiore agli altri ragazzi, ero quella con le scarpe sempre sporche di fango, che veniva da una famiglia poco scolarizzata. E così, per sentirmi in diritto di pretenderla, la cittadinanza del mondo, mi sono detta che la mia sola chance fosse di essere sempre la migliore a scuola: desideravo, e a tutti i costi, eccellere. Non volevo esser brava, ma la migliore; una sfida con me stessa che alla fine mi ha sfibrata.

Dell’età adulta?

L’adultità è stata senza dubbio la più difficile, l’età in cui le mie fragilità sono deflagrate. Paradossale, perché il periodo seguente alla laurea fu quello in cui mi realizzai ma fu anche quello in cui i nodi vennero al pettine. Avevo attacchi di panico e di ansia, non riuscivo a raccapezzarmi.

E poi?

E poi è accaduta la vita, com’è per tutti.

Di Pietrantonio, so che da tempo vorrebbe scrivere il suo memoir. Crede sia arrivato il momento?

Non lo so. Penso, a ogni modo, che L’età fragile sia il mio ultimo romanzo.

Perché?

Ho 62 anni, non so se avrò ancora energia sufficiente per scrivere un romanzo. E poi nel mio futuro potrebbe esserci una malattia neurodegenerativa.

Potrebbe avere una malattia neurodegenerativa?

Per motivi genetici potrei svilupparla, in futuro. A mia madre fu diagnosticata in età precoce, a sessant’anni.

La sento serena, al riguardo.

Lo dico senza angoscia, sì: è una realtà, e con la realtà dobbiamo farci i conti.

Smetterà di scrivere?

No. Forse mi dedicherò a forme brevi. Dei racconti, magari.

Lei è una scrittrice, ha girato l’Italia, è stata tradotta in trenta lingue, da uno dei suoi romanzi è stato tratto un film (per cui ha vinto un David di Donatello), ha vinto il Campiello ed è stata in finale allo Strega.

Così detto sembra meraviglioso, vero?

Ma lo è! Ecco, le chiedo: cosa direbbe a quella bambina che per andar a scuola doveva camminare per due chilometri, tra i boschi? E cosa crede le direbbe, lei, vedendola oggi?

Bella domanda. Le direi di avere meno paura, perché tanto il lupo non arriverà e la vita procederà. Mentre lei, non so, forse lei mi direbbe di crederci di più.

Credere in cosa?

In me stessa, nelle mie storie: le mie storie sono pure quella bambina, e glielo devo.

© Riproduzione riservata