Rubber Soul usciva nel 1965, era il sesto album dei Beatles e si apriva, almeno nella sua versione europea, con un riff che che era come una fiammata, messo lì ad annunciare il travolgente andamento di un brano denso di doppi sensi. Ecco, forse non c’è nulla di più lontano da Drive my car, il film di Ryusuke Hamaguchi, della canzone che ne ha ispirato il titolo. Il lavoro del regista giapponese ha invece un ritmo compassato, al limite del commovente.

Il titolo è forse il debito più evidente al racconto di Murakami Haruki, anch’esso posto in apertura, in questo caso però di una raccolta: Uomini senza donne. D’altronde l’amore del grande romanziere giapponese per il citazionismo beatlesiano è ben noto, basti pensare che uno dei suoi romanzi più famosi porta il nome della seconda traccia di Rubber Soul, Norwegian Wood.

Hamaguchi va oltre Murakami e, se ci è concesso dirlo, lo migliora. Era già chiaro vedendo il suo penultimo film, Il gioco del destino e della fantasia, ma una volta di più il regista si conferma una delle penne di maggior pregio del panorama internazionale. Ruba al racconto i suoi tratti generali per poi ricostruirli, rendendoli più profondi e strutturati. Drive my car è anzitutto una lezione magistrale di come un film ben scritto possa contenere e far collimare perfettamente i temi più diversi.

Omaggio a Cechov

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C’è più d’ogni altra cosa il teatro, a cui Hamaguchi riesce a rendere omaggio senza scadere nella parodia ed evitando con attenzione il rischio di mortificarlo. Da Murakami riprende, appena accennato nel racconto, il rimando allo Zio Vanja di Čechov. Nel film il testo del grande drammaturgo russo diventa una colonna portante, non solo una traccia sotterranea, ma una vera e propria sorgente a cui attingere a piene mani.

Il protagonista, Kafuku, deve metterlo in scena a Hiroshima. È un attore e regista teatrale, famoso per la sua insolita pratica di teatro multi linguistico, ossia spettacoli in cui ciascun interprete appartiene a una diversa cultura e, di conseguenza, utilizza una lingua diversa per le proprie battute. Kafuku è però preda di un dolore irrisolto, nascosto abilmente sotto la maschera impassibile del volto del suo interprete, Hidetoshi Nishijima. Non può quindi recitare la parte dello zio e si limita a dirigere.

Conosce comunque il testo a memoria, lo ripassa in auto mentre guida, grazie a delle registrazioni in cui sua moglie legge tutto il resto del copione. La macchina è per tutto il film una bolla di enorme valenza semantica. È all’interno della Saab rossa che hanno luogo quei dialoghi fittizi, svolti attraverso le parole di altri, contraltare delle conversazioni che i due non riescono ad avere nella loro vita coniugale. Ed è sempre in macchina che Kafuku fugge dai possibili crolli del suo equilibrio, sia interiore che esteriore.

Il palco di Hiroshima

Hiroshima/Foto AP

A Hiroshima, durante la lavorazione dello Zio Vanja, l’irruzione all’interno di quel ritaglio personalissimo di universo da parte di una sconosciuta, ingaggiata dal teatro come autista, porta inevitabilmente a una dolorosa presa di coscienza, preludio di un’elaborazione finalmente piena.

Affacciati sulla baia della città ferita dalla storia, Kafuku e la sua autista, Watari, si riconoscono come figli di una stessa sofferenza, legati insieme senza volerlo. La scelta di Hiroshima come scenario è ancora una volta un’intuizione geniale del regista, che esula dal racconto.

Non c’è bisogno di correre indietro fino a Resnais e all’abbraccio di Riva e Okada per capirne la portata. Hiroshima è ancora e sempre il luogo del dolore collettivo della storia che si riverbera nel dolore individuale di chi è costretto a camminarci dentro.

Il tempo di crescere

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La durata del film può forse scoraggiare, sebbene Hamaguchi ci abbia abituato a questo tipo di scelte. Happy Hour ad esempio, uscito nel 2015, superava ampiamente i trecento minuti. Le quasi tre ore in cui si svolgono i due tronconi della vicenda di Drive my car, ambientati a due anni di distanza l’uno dall’altro, sono però dosate con sapienza.

L’obiettivo non è farle risultare più leggere per lo spettatore, ma semplicemente concedere ai personaggi il tempo fisiologico per la crescita di una consapevolezza reale nella loro coscienza. È la storia, insomma, che guida il film, e lo spettatore non può che abbandonarsi sul sedile del passeggero.

Hamaguchi ha costruito Drive my car sulla separazione dei luoghi, come uno spettacolo teatrale. L’elemento in grado di congiungerli è ovviamente la macchina che pure, allo stesso tempo, è un luogo a sé, di preparazione al confronto col resto del mondo. La Saab che diventa metafora della vita intera, del lutto come cicatrice e del teatro come catarsi.

A Cannes, il film era piaciuto a tutti, ma non era il più chiacchierato. Dall’insolita versione estiva del festival, tornò a casa con un Prix du scénario (il premio alla sceneggiatura) meritatissimo e, in qualche modo, stretto.

Oggi è lanciatissimo per la cerimonia degli Oscar, in cui ha guadagnato una nomination per ben quattro categorie, compreso il miglior film. Per intenderci, sono le stesse statuette per cui nel 2019 aveva corso Parasite di Bong Joon-ho, scrivendo la storia dei premi e del cinema statunitense.

Racconto efficace del dolore

Drive my car oltreoceano sta trovando un pubblico estremamente favorevole, forse anche più che in Europa. Probabilmente è il sintomo di una miopia da cui non riusciamo a liberarci. A memoria, è difficile trovare un’opera (cinematografica, letteraria, teatrale) che sappia affrontare il dolore e la sua elaborazione con la stessa delicatezza ed efficacia.

Hamaguchi non offre soluzioni, così come non offre palliativi al dolore degli sconfitti Čechov in Zio Vanja, ma reclama con forza il diritto a esistere di chi si sente menomato dalla sofferenza.

La lunga ripresa del monologo finale di Sonja è difficile da dimenticare, rimane nella mente e negli occhi, come anche l’albeggiare scuro su cui si staglia l’ombra di Oto, la moglie di Kafuku, nella prima scena del film. Non è solo grande cinema, è l’umanità al massimo del suo splendore e della sua miseria.

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