Erano le prime ore del mattino di giovedì 4 novembre, ovvero il momento in cui in molti stati americani si cominciava a capire che c’era una montagna di voti arrivati per posta, che sarebbero stati favorevoli a Biden. Donald Trump scrisse il suo tweet come un ordine militare: “Stop the count”, fermate il conteggio.

Nessuno, ovviamente lo seguì, perché eravamo in nord America, non ancora in Sudamerica. In compenso però, gli rispose una bella valanga di contro-tweet, all’apparenza difficili da interpretare, a meno di non essere dei cinefili. Due fotogrammi in bianco e nero: in uno si vede un tipografo che tiene in mano il “bozzone” della prima pagina di un giornale da mandare in stampa. A titoli cubitali è scritto “Kane elected”. 

Nel secondo, sempre sullo stesso bancone della tipografia, un altro tipografo mostra un secondo bozzone: “Fraud at the polls”, brogli ai seggi. Svelato subito il gioco: si tratta di una delle scene madri di Citizen Kane (da noi Quarto Potere) una fiction scritta prodotta diretta e intepretata dal 25enne Orson Welles nel 1941, ancora oggi considerato come uno dei migliori film mai realizzati.

La storia di Kane

È la storia del tycoon Charles Foster Kane, miliardario venuto dal nulla, magnate della carta stampata che utilizza per scalare il potere: «Difenderò i poveri contro il potere corrotto» declama in comizi ruggenti in cui promette di mettere in galera il suo avversario. Si candida a governare New York, trampolino per la Casa Bianca, quando uno scandalo sessuale lo ferma a una settimana dal voto.

Kane, che è sposato con Emily, la nipote del presidente, viene beccato nella abitazione di una giovane “cantante”: titolo su sei colonne dalla stampa concorrente. Kane pensa ancora di farcela, ma il suo general manager, senza dirglielo, prepara due possibili prime pagine per il giorno dopo le elezioni: a metà notte decide per la seconda: «Fraud at the polls».

Se Trump è il nuovo Citizen Kane, nulla di buono lo aspetta. Nel film, Kane divorzia dalla moglie, sposa Susan, la giovane cantante, costruisce per lei un teatro dell’opera per farla debuttare come soprano e, naturalmente, la cosa finisce in disastro perché Susan, semplicemente, non sa cantare.

Costruisce per sé e per lei un castello in Florida, più grande di quello concepito da Kubla Kahn a Xanadu, che trasforma nella sua monumentale tomba; Susan riesce a scappare, Kane muore, solo, tenendo in mano una palla di vetro con la neve che conservava da quando era un bambino piccolo nelle fredde montagne del Colorado.

L’oggetto cade, l’infermiera accorre in tempo per sentirgli mormorare l’ultima parola: «Rosebud» (bocciolo di rosa). Che cosa voleva dire il vecchio Kane? Mistero su cui indaga il film. E siccome dopo 70 anni uno spoiler si può fare, ecco la soluzione: nell’ultima scena del film, distratti operai svuotano il castello delle cose senza valore che il padrone aveva conservato: nel camino finisce anche un vecchio slittino di legno, su cui, prima che le fiamme la distruggano, la macchina da presa stringe sulla parola Rosebud.

Quarto potere oggi

Detto tutto ciò, l’invito è a recuperare Quarto potere e assaporarselo; si trova in streaming un po’ dovunque, vi farà passare due belle ore e vi farà meditare – in questi giorni di dura lotta con la realtà del presidente Trump – quanto appunto la letteratura e il cinema abbiano la straordinaria capacità di anticipare la realtà stessa.

E quindi, se «lo scritto non mente», come avrebbe detto l’Alighieri, Trump lo Sconfitto si trasferirà nella sua Xanadu, la tombale Mar-a-Lago che, preveggente, si è fatto costruire in Florida, da dove certamente Melania cercherà di sfuggire; di lì cercherà, per un po’, di aizzare i suoi seguaci, ma poi questi troveranno altri vitelli d’oro da adorare.

Ma questo aspetto – cosa farà il popolo – nel film non c’è. Il film parla soltanto del Capo, del Potere, del Titanismo, come grandiose patologie americane; che Xanadu e Kane vivano in un altro mondo, lo mostrano solo i due fotogrammi iniziali e finali: un lugubre reticolato su cui è inchiodato un cartello: «No trespassing», vietato l’ingresso.

Occorre però anche dire che quando uscì (maggio 1941, sei mesi prima di Pearl Harbor), il film parlava di una persona vera, il magnate della stampa William Randolph Hearst (78 anni), che dominava la politica americana con il potere dei suoi giornali. Orson Welles (24 anni) aveva cercato di tenere segreto il più possibile l’argomento del suo film, ma Hearst lo venne a sapere e lo boicottò con ogni mezzo, negandogli una grande distribuzione nelle sale.

Aveva ben ragione, il vecchio: gli episodi narrati nel film erano veramente successi o stavano succedendo: Kane-Hearst aveva fomentato l’intervento a Cuba del 1898, l’apristrada per la conquista della proprietà sul canale di Panama; aveva costruito la sua Xanadu in California e da lì dominava Hollywood, i suoi giornali erano ora schierati contro l’entrata in guerra in Europa. Tutto questo era sufficiente per rendere furioso il vecchio Hearst, ma c’era di più.

Metà del film di Welles, più che al potere, era dedicata alla disastrosa storia d’amore tra Kane e la cantante dilettante Susan Alexander. Era la copia esatta della storia di Hearst con un’attricetta del cinema muto, Marion Davies, che all’età di vent’anni divenne la sua amante: Hearst, per farla lavorare, aveva costruito addirittura una società di produzione, come Kane aveva costruito per Susan un teatro dell’opera.

Il consiglio di Trump

Quanto resiste, nella vicenda di Donald Trump, di quel mondo? Molto, l’intuizione del potere manipolatorio dei media innanzitutto. Ma se fosse trasportato oggi, Citizen Kane non sarebbe Trump, sarebbe Rupert Murdoch, il quasi novantenne padrone di Fox News, che ha costruito il successo di Trump, per poi pugnalarlo nell’orgasmo populista finale.

Bella storia anche questa: guardate il comizio finale di Kane nel film – il trionfo del corpo - e il comizio finale, nel freddo del Wisconsin, con il cappotto sbottonato, i guanti neri, di Donald Trump: sono uguali. Ma Murdoch sapeva già che Donald aveva perso, e Donald no. Ma nessuno ha avuto il coraggio di dirlo allo sconfitto.

C’è poi il problema dell’amore. Che cosa vuol dire Rosebud? È la rinuncia alla possibilità di amare, il prezzo del potere? La scena primaria mai superata? L’essenza della disumanità del capitalismo? Se ne discute da mezzo secolo e – sarcasmo del destino! – anche Donald Trump prese posizione.

Nel 2002, per la glorificazione del film più bello del mondo, la Hollywood Academy commissionò un documentario al famoso regista Errol Morris; tra le decine di persone intervistate, un Trump di 56 anni, già famoso come “businessman”. Senza il minimo senso dell’ironia e nonostante la fine solitaria del protagonista, Trump disse di identificarsi totalmente in Charles Foster Kane e di averlo come modello; disse che l’accumulazione della ricchezza è una cosa buona, anche se, in effetti, può portare alla solitudine.

Morris gli chiese allora se aveva qualche consiglio da dare a Kane, e Trump rispose: «Trovati un’altra moglie». Altro non gli venne in mente, ma si può giocare a quando, nel grande castello di Mar-a-Lago, tra molto tempo, eh, anche a lui toccherà dire le ultime parole. Dirà “Murdoch”, che lo tradì? O “Ivana”, la prima moglie, l’unica che gli si oppose per davvero? Hollywood sta già preparando le sceneggiature.

Per i cinefili appassionati

Lo scrittore Gore Vidal, negli anni Ottanta, diede la soluzione del giallo Rosebud. Era il termine con cui, nell’intimità, il vecchio Hearst chiamava il clitoride della sua giovane amante Marion Davies; di qui l’animosità del vecchio per il film. Si andò per avvocati.

Dal 5 dicembre, su Netflix, Mank di David Fincher. Film drammatico con Gary Oldman, che rivela il vero grande segreto di Citizen Kane: il merito non fu di Welles, ma dello sceneggiatore Herman Mankiewicz. Se ne dice un gran bene.

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