Sto seriamente pensando di licenziarmi dal sindacato e di aprire un’agenzia privata. Di mestiere faccio le ispezioni nei luoghi di lavoro a rischio, in base al decreto legislativo 81/08,

“Testo unico sulla salute e sicurezza sul lavoro”: vado nei cantieri e nelle fabbriche per verificare che i dispositivi di sicurezza siano attivi e tutte le precauzioni previste dalla legge vengano rispettate.

Di recente però hanno cominciato a venire da me non solo persone in carne e ossa, lavoratori e lavoratrici, ma anche personaggi di romanzo. Sì, proprio personaggi inventati. Come mai? Perché nei romanzi i personaggi ne subiscono di tutti i colori. Gli autori e le autrici si sentono autorizzati a infierire su questi poveri esseri fatti di parole. Ormai sono così tanti che potrei mettermi in privato e lavorare solo per loro.

La direttiva Ue a tutela dei personaggi

Io non sono un critico letterario, sono un sindacalista, ma da qualche mese ho cominciato a frequentare anche quelle cose che chiamano presentazioni di libri, riti fasulli dove di solito c’è qualcuno che intervista l’autore, e si ritrova costretto a parlare bene del suo libro, perché non può dirgli davanti a tutti che non gli è piaciuto.

Comunque, a parte questo, me ne resto buono buono ad aspettare la fine della presentazione, mi metto in coda per farmi firmare una copia del romanzo, e quando arrivo davanti all’autore gli chiedo: «Senta, ma perché ha trattato così male il protagonista? Le sembra giusto?» Quello mi guarda stranito, allora io rincaro la dose: «Bisognerebbe fare un salto di civiltà, chiedere all’Unione europea che emani una direttiva. Su ogni romanzo si dovrebbe scrivere: “Nessun personaggio è stato maltrattato durante la stesura di questo libro”».

Quasi sempre l’autore scoppia a ridere e mi dice: «Ma allora come si fa? Così dovremmo smettere di scrivere, non si potrebbe raccontare più niente!»

Il manichino muscoloso

Ormai nel mio ufficio oltre alle persone comuni arriva almeno un personaggio al giorno. Il più inaspettato è stato quello della settimana scorsa. All’inizio mi sono stropicciato gli occhi. Sembrava nudo. L’ho guardato meglio e mi sono reso conto che era una specie di manichino. Senza occhi né naso né bocca, con un uovo liscio al posto della testa. L’inguine era piatto, non aveva sesso.

«Ho bisogno di un consulto», ha detto sedendosi di fronte a me. La sua voce era neutra, inespressiva, né maschile né femminile: non capivo da dove uscisse, forse aveva un altoparlante incorporato in testa.

Ho cercato di mantenere i nervi saldi. «Chi l’ha ridotta così?», gli ho chiesto. «In che romanzo ha lavorato?»

«In nessuno, per ora».

«Ma come!»

«Sono un personaggio potenziale. Ancora in attesa di essere scritturato».

«Esistono personaggi potenziali?»

«Certo. Viviamo come in un limbo. Aspettando di essere convocati ci annoiamo a morte, anche perché non abbiamo niente da raccontarci. Molti di noi si deprimono, ed è peggio, perché così stingono, perdono qualunque personalità, e non verranno scritturati mai; a meno che l’autore non cerchi proprio un personaggio depresso. Io, per non buttarmi giù, cerco di tenermi in forma».

Ha sollevato le braccia ai lati e ha contratto pettorali e bicipiti, stringendo i pugni, nella posa un po’ caricaturale dei palestrati. «E ho fatto bene», ha proseguito, «perché proprio questa mia sana abitudine ha spinto uno scrittore a farmi una proposta di lavoro».

«Di chi si tratta?», ho domandato.

«Raul Montanari. Nei suoi libri ci sono spesso uomini che fanno esercizi ginnici, corpi ben tenuti, fisici solidi».

«Be’, dovrebbe essere contento», ho commentato.

«E invece sono preoccupato».

«Come mai? Ha paura dell’aspetto che le darà l’autore?»

«Al contrario! Non vedo l’ora di avere una faccia, qualunque sia». Mi ha allungato un libro. «Si intitola Il vizio della solitudine, è l’ultimo romanzo di Montanari. Lo legga e poi ne riparliamo».

L’ex poliziotto giustiziere

Come sempre, mi sono portato a casa il lavoro per documentarmi meglio. Ma in questo caso non ho fatto nessuna fatica. Non riuscivo a staccarmi dalla lettura, ho passato un fine settimana di godimento puro.

Il protagonista si chiama Ennio Guarnieri. Ha una quarantina d’anni, fa il poliziotto a Milano, ma pensa che la legge non sia sufficiente a garantire la giustizia. «Fatevi giustizia da soli se potete, dice la legge ai cittadini, perché se aspettate noi non sarete mai risarciti nella misura del danno. Arrangiatevi da soli e vi diremo anche grazie, perché abbiamo già i tribunali intasati»: è una fra le tante riflessioni disseminate nel romanzo. Tra l’altro, questa è una delle cifre più incisive di Montanari, il contrappunto riflessivo ai fatti, espresso con naturalezza e profondità.

Ennio Guarnieri, proprio perché non è soddisfatto del sistema giudiziario, a volte si trasforma in giustiziere insieme ai suoi colleghi: ma si limita a somministrare schiaffoni a qualche bullo o ricattatore condominiale, niente di più, per dargli una lezione e farlo smettere. Ha un’attitudine riparatrice extragiudiziale, se così si può dire.

Un giorno però fa il suo primo errore: picchia l’odioso figlio di un avvocato potente, amico del questore. È costretto a dimettersi dalla polizia. Ma il suo secondo errore, molto più grave, lo commette da disoccupato. Mentre pesca sul Ticino, interviene per salvare un uomo che sta per essere ucciso: nel bosco vicino al fiume, Guarnieri spara a un nigeriano che stava per ammazzare un nordafricano. È la scena che apre il libro.

Guarnieri non si rende conto che ciò a cui ha assistito – e che ha ribaltato con il suo intervento – non era un assassinio gratuito. Il nigeriano faceva parte di un’organizzazione clandestina di vendicatori: sono cacciatori di scafisti, un po’ come i cacciatori di nazisti; braccano gli aguzzini che traghettano profughi nel Mediterraneo fra mille angherie e violenze.

Guarnieri non lo sapeva che in quel bosco vicino al fiume stava eliminando il giustiziere e salvando l’aguzzino. A quel punto si ritrova in una situazione ferocissima. Verrà sicuramente ucciso dai nigeriani. A meno che… A meno che non accetti di lavorare per loro. Così Guarnieri si ritrova nella tipica situazione di chi vede realizzate fino in fondo le proprie pulsioni. Anche troppo. Non si tratta più di dare quattro pappine agli sbruffoni molesti, ma di far fuori davvero i malvagi, sporcandosi le mani di sangue.

Il sublime etico

Il romanzo di Montanari instilla una specie di angoscia esistenzialistica, uno stato d’animo etico sublime, nel senso romantico del termine: sublime perché al tempo stesso attrae e spaventa, come quando si guarda un abisso da un parapetto. L’abisso qui è morale: la tragedia sublime fa coincidere necessità e dubbio, crimine e giustizia, innocenza e abominio. E sono splendidamente angoscianti le pagine del romanzo che raccontano il buio nerissimo, il lutto etico in cui affoga Guarnieri dopo ognuna di queste esecuzioni.

Oltre a questo filone principale, Il vizio della solitudine è intrecciato ad altri personaggi davvero indimenticabili. Fra tutti spiccano le donne. Una è Greta, una ventenne attivista politica, di quelle che suonano il campanello vendendo porta a porta il mensile Lotta Comunista. In un certo senso, Greta è il contrario di Ennio Guarnieri. Lei rivoluzionaria, fideistica, palingenetica; lui fatalista, disincantato, tuttalpiù raddrizzatore occasionale di qualche stortura sociale. Fra i due si avvia una relazione niente affatto scontata, la più bella che mi sia capitato di leggere nei romanzi di questi anni.

Altrettanto incantevole è la frequentazione di Ennio Guarnieri con la sua anziana insegnante elementare, la maestra Girelli. Sì, perché, Ennio chiede alla sua ex maestra di dargli delle lezioni private, rifacendo da capo il programma scolastico delle scuole elementari: Ennio ha la nostalgia di riappropriarsi di un sapere non specialistico, ma essenziale e onnicomprensivo, com’era quello delle scuole primarie.

Può sembrare una bizzarria, e invece reimparare tutto dall’inizio fa scaturire considerazioni molto acute sui tempi verbali, sull’etimologia, sull’uso burocratico della lingua (questo punto mi ha ricordato il celebre articolo del 1965 di Italo Calvino sull’“antilingua”).

E poi c’è Ric Velardi, l’investigatore privato che, da un decennio a questa parte, fa da comprimario risolutivo nei romanzi di Montanari. Testa rapata, impermeabile bianco, la salsa di soia sempre in tasca e le dita unte di involtini primavera; e il suo inconfondibile tic sonoro, «hm!», un minuscolo barrito con cui cerca di liberarsi da una sensazione di intasamento del respiro, a causa del setto nasale rotto tanti anni prima da un pugno.

Espulso dalla polizia, Ennio Guarnieri viene eiettato giù, fuori dal sistema sociale regolare, in un mondo popolato da giustizieri illegali (i vendicatori nigeriani), professionisti a supporto della legge che però la violano (Ric Velardi), rivoluzionari coscienziosi che sognano di scaravoltare tutto (Greta), educatori che riavvolgono il nastro della vita fuori tempo massimo (la maestra Girelli).

Vive una specie di allucinazione selvaggia e concretissima, che Montanari riesce a rendere credibile e, proprio per questo, commovente e angosciosa. Ed è anche una meditazione narrativa su un punto cruciale, sia artistico che politico: dove sta la tragedia, oggi, in occidente? Nelle pieghe clandestine delle nostre comunità? Nelle situazioni vissute da immigrati, stranieri, cosiddetti “irregolari”? Basta sconfinare un po’ dalla normalità, uscire di pochi metri dalla strada asfaltata – come dice Stephen King – per perdere ogni sicurezza e incontrare i mostri del bosco di notte: che in questo caso non sono soprannaturali; sono le contraddizioni prodotte dal nostro sistema sociale, e che preferiamo non guardare.

Ennio Guarnieri sprofonda fino al collo in questo mondo che prima scorreva a lato del suo e che non aveva mai preso veramente in considerazione. A lato, o dentro il suo? È questo il punto. Queste ingiustizie atroci e l’odio che provocano non lo riguardano, o ne era coinvolto da sempre senza saperlo, senza volerlo sapere?

Il brindisi senza bocca

Il giorno dopo avere finito la lettura avevo un appuntamento con il personaggio potenziale. Ci siamo trovati sotto la sede del sindacato. È arrivato con la sua andatura un po’ meccanica ma solida, da manichino muscoloso.

«Bene, dove mi porta?», gli ho chiesto.

«Saliamo su nel suo ufficio, no?».

«Eh, ma di solito faccio sopralluoghi nei posti in cui è ambientato il romanzo, per controllare che le condizioni di lavoro di voi personaggi siano sicure».

«Ma io non ho mica idea di dove mi piazzerà Montanari! Il nuovo romanzo deve ancora scriverlo».

Gli ho proposto di fare due chiacchiere al bar. «Allora», ho ripreso dopo che ci siamo seduti, «mi diceva che non ha idea del suo ruolo? Montanari non le ha anticipato nulla?»

«No. Posso solo fare delle ipotesi. Probabilmente nel suo prossimo romanzo ci sarà ancora Ric Velardi. Anzi, spero proprio che ci sia. Una vera star, che non ruba mai la scena ai protagonisti ma li mette di fronte alla loro verità».

«Bene. E allora che cos’è che la preoccupa?»

«Ho contattato i personaggi dei vecchi libri di Montanari. Ho parlato un po’ con loro. Mi hanno detto tutti che lavorare per lui è un piacere, perché è un romanziere che ti fa vivere avventure spasmodiche, esperienze umanissime, con risvolti filosofici sempre molto densi».

«Di bene in meglio», ho commentato.

Il cameriere è passato a chiedere che cosa prendevamo. Non sapevo che cosa ordinare da bere per un essere senza labbra né gola, ma mi sono sporto verso il cameriere e a bassa voce gli ho chiesto di portarmi una certa cosa.

Il manichino muscoloso era tutto preso dalle sue spiegazioni: «E poi i personaggi di Montanari mi hanno detto che è un autore noir molto originale: o meglio, “post-noir”, come ama dire lui».

«In che senso?» gli ho chiesto.

«Perché nelle sue storie spesso ci sono persone normali che si trovano ad affrontare circostanze eccezionali. Non c’è il solito schema dell’investigatore seriale che indaga per mestiere. E poi, per me che faccio il personaggio c’è un risvolto fondamentale. Ho letto tutti i suoi libri, e ho scoperto una cosa».

«Mi dica».

«Nei suoi romanzi si muore poco. Morti ammazzati, intendo».

«Allora benissimo».  

«Non proprio. Ho fatto il conto: in sedici romanzi e trent’anni di carriera, di morti ammazzati ce n’erano stati in tutto otto. Mica tanti, se considera che Montanari è uno scrittore che ha sempre raccontato crimini, relazioni violente, sopraffazioni, scontri fisici. Ma nel Vizio della solitudine, che è il diciassettesimo, ci sono ben quattro morti. Una strage, per gli standard di Montanari».

«E chi se ne importa?», ho detto. «È un romanzo stupendo. Se anche il prossimo sarà così…»

È tornato il cameriere, con una bottiglia di prosecco in un secchiello di ghiaccio. Gli ho chiesto di lasciar fare a me: ho afferrato la bottiglia e ho stretto le dita intorno al tappo, cominciando a forzare il sughero.

«Che cosa fa?», mi ha chiesto il personaggio potenziale.

«Stappo col botto e brindo alla sua salute!»

«Perché?»

«Be’, vivo o morto, sopravvissuto o ammazzato, se fossi in lei farei festa per essere stato scritturato da uno scrittore così!»


     

Raul Montanari

Il vizio della solitudine

Baldini+Castoldi

332 pagine, 19 euro

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