Alla fine del 2020 la scuola primaria è stata investita da un cambiamento radicale nel modo di valutare: con l’ordinanza ministeriale 172 la valutazione non veniva più espressa con i voti, ma attraverso un giudizio descrittivo, in prospettiva formativa.

È stato quindi chiesto alle scuole di definire nel proprio curricolo d’istituto gli obiettivi per ciascun aspetto di ogni disciplina, a cui i giudizi descrittivi dovevano riferirsi secondo quattro differenti livelli di apprendimento: in via di prima acquisizione, base, intermedio e avanzato.

La definizione degli obiettivi internamente ai singoli istituti ha comportato un lavoro triennale di formazione, confronto e messa a punto, a partire dalle indicazioni nazionali ma tenendo conto dei contesti specifici, di un enorme lavoro di aggiornamento per tutto il personale della scuola.

Non è stato scontato né facile questo cambio di prospettiva; in una parte dei docenti c’è stata la tendenza a conservare una modalità di valutazione classificatoria, utilizzando i livelli come fossero voti.

Il lungo percorso dei docenti

Tuttavia, dopo la 172 noi docenti ci siamo dovute e dovuti interrogare sul significato della valutazione, nel momento in cui dovevamo valutare gli apprendimenti di ciascun alunno o alunna non in relazione a una disciplina in generale, ma ai suoi differenti aspetti.

Non più assegnare, ad esempio, un generico voto in “italiano”, ma osservare, valutare e comunicare a che punto del processo di apprendimento un bambino o una bambina si trova rispetto al comprendere o scrivere un testo, organizzare un discorso, conoscere i funzionamenti della lingua…

Molto più di un semplice voto o un giudizio sintetico. Per cambiare ci vuole tanto tempo a disposizione: è stato necessario dapprima capire tecnicamente come cambiava il sistema, poi comprendere come poterlo applicare al meglio, afferrandone il senso e l’efficacia.

Gli istituti comprensivi hanno realizzato percorsi formativi per mettere i propri insegnanti nella condizione di muoversi consapevolmente nelle nuove modalità valutative; università, istituti di ricerca e associazioni professionali provavano ad accompagnare le scuole in percorsi di ricerca-formazione con incontri e pubblicazioni.

Altrettanto lunghi sono stati i momenti di scritture e riscritture per la definizione degli obiettivi di apprendimento e per la scelta degli strumenti più adatti per valutare, con l’idea che qualche prova di verifica non sia sufficiente per restituire il percorso di insegnamento-apprendimento delle nostre classi.

Un lavoro importante

Sono stati tantissimi i momenti di discussione per superare le iniziali incomprensioni, tanto tra insegnanti quanto con i genitori, in un’organizzazione scolastica che spesso non consente occasioni di dialogo e confronto di così ampio respiro.

Molte scuole hanno accolto questo cambio di rotta come una grande opportunità di appropriarsi di più efficaci strumenti professionali e di costruire forme di relazione nella scuola. Abbiamo provato a migliorare la scuola dall’interno.

In questi tre anni abbiamo imparato a riflettere di più sui risultati dei nostri bambini, sugli obiettivi e le attività che progettavamo; a parlare di più tra noi insegnanti, con gli alunni e i loro genitori.

E ora, a tre anni dalla 172 e a pochi giorni dalla conclusione del primo quadrimestre, è all’esame della commissione Cultura e istruzione del Senato un emendamento del governo – che ha come relatrice Carmela Bucalo di FdI – per modificare ancora una volta le modalità di valutazione nella scuola primaria, sostituendo la valutazione descrittiva introdotta nel 2020, con dei giudizi “sintetici” che, con molta probabilità, saranno espressi da aggettivi.

Si smantella una riforma appena avviata senza una discussione pubblica attorno a un tema così complesso e delicato come la valutazione di bambine e bambini dai sei ai dieci anni.

Come hanno chiaramente spiegato diverse associazioni, migliaia di insegnanti di scuola elementare – così andrebbe chiamata, è la scuola dove si apprendono gli elementi fondamentali – verranno ancora affaticate da una decisione immotivata, senza essere state coinvolte in nessun modo e dopo aver speso tante energie e soldi per un triennio.

Questa è la considerazione che si ha del lavoro degli insegnanti? Questa è la politica che dovrebbe, secondo le dichiarazioni del ministro Valditara, «ripristinare la cultura del rispetto» tra le mura scolastiche?

Noi docenti paghiamo le conseguenze dello squallido teatro inscenato a ogni cambio di governo intervenendo sulla scuola nel tentativo di accontentare il proprio elettorato.

Le “non” ragioni del cambiamento

Lo scenario che si pone ora è un ritorno immotivato a giudizi sintetici probabilmente espressi da aggettivi, niente di diverso dal voto. Ma perché usare una modalità classificatoria, che sia lettere, numeri o aggettivi, invece che una modalità descrittiva che impone la ricerca di parole e frasi per condividere un percorso di apprendimento?

Carmela Bucalo di FdI ha dichiarato che questo risponde al bisogno di chiarezza e immediatezza espressa dalle famiglie che si sentivano disorientate dal precedente sistema; secondo il ministro Valditara questa misura garantirà maggiore certezza e trasparenza nella valutazione.

Dando per scontato che le riforme della scuola non dovrebbero accontentare le richieste delle famiglie – di alcune famiglie – ma rispondere a una precisa visione pedagogica, l’esperienza di questi anni ci permette di rispondere a questa prospettiva.

Nell’attuale documento di valutazione ogni disciplina è articolata in alcune voci – gli obiettivi – che definiscono cosa ogni bambino o bambina dovrebbe essere in grado di fare al termine di un anno di scuola. La valutazione così non è un momento slegato dall’apprendimento, ma lo accompagna e ne regola l’andamento in un processo continuo e trasparente.

Un numero o una lettera è indubbiamente facile da recepire e comprendere: è una graduatoria in cui capisco se mi trovo tra i bravi, i mediocri o gli scarsi. Ma difficilmente mi permette di capire come sto lavorando o ho lavorato, quali sono i miei punti di forza o di fragilità, dove devo intervenire.

I nostri alunni e alunne hanno aumentato la loro capacità di autovalutazione: sono stati portati ad avere attenzione ai propri punti di forza e di criticità, hanno sviluppato processi di autoregolazione del proprio lavoro scolastico.

E poi la messa in pratica della covalutazione: ricevono un feedback dai compagni e dalle compagne che attraverso una descrizione – quindi ancora una volta con parole e non con i numeri – restituiscono gli elementi di interesse o fragilità, in un’ottica migliorativa, per aiutare l’altro a crescere.

Questo movimento di osservazione dell’operato degli altri ha creato una sorta di repertorio di pratiche e un patrimonio comune di saperi condivisi dalla classe, tramite un’imitazione positiva («Questa cosa ha funzionato, la possiamo rifare così»).

Così noi insegnanti rileviamo informazioni secondo molteplici indicatori che comprendono anche la partecipazione, l’autonomia, la capacità di lavorare in gruppo, la capacità di organizzare un lavoro.

Infine, rispetto ai provvedimenti penalizzanti rispetto alla condotta nelle scuole superiori che entreranno in vigore con il ddl Valditara, va ricordato che la valutazione nella primaria ha un carattere completamente diverso dalla secondaria. Quel potere disciplinante esercitato attraverso il voto che spesso si riscontra nei gradi superiori alla primaria sembra esserci meno frequentemente.

Il tempo più dilatato delle otto ore giornaliere e la presenza di pochi docenti di forte riferimento (sebbene ormai non meno di tre/quattro per classe, in seguito ai tagli all’organico operati già dalla riforma Gelmini del 2008) permettono la costruzione di relazioni più intense e strutturate, che in molti casi non necessitano del controllo autoritario attraverso i voti.

Tanto il comportamento, quanto gli apprendimenti possono essere regolati attraverso numerosi altri dispositivi a disposizione di chi insegna alla primaria, attraverso la relazione e l’organizzazione didattica.

Riconoscimento dei compiti

I giudizi descrittivi e la definizione di obiettivi per ogni aspetto di ciascuna materia, così come sono stati sanciti dal decreto 172, permettono di riconoscere come compiti della professione docente – e non come un di più garantito da alcune maestre zelanti – quegli aspetti di relazione che si realizzano nell’osservazione e ascolto, e nella ricerca di parole per definirne lo specifico percorso.

Aspetti che altrimenti potrebbero venire a mancare o verrebbero messi in atto solo da chi lavora «con passione» e dedizione, confermando la retorica secondo cui le brave maestre sono naturalmente e spontaneamente empatiche e disponibili.

In un settore come la scuola primaria in cui la prevalenza è di docenti donne, è quanto mai necessario ribadire che la nostra è una professione, non una vocazione, e che necessita di formazione, ricerca, sperimentazioni, confronti e riconoscimento. Non di riforme svilenti e inutili.

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