Il 12 agosto 1988, in una New York calda come non si sentiva da un po’, Jean-Michel Basquiat consuma la sua fiamma nel loft al 57 di Great Jones Street. Sulle cause non ci sono dubbi: overdose. In tasca ha due biglietti aerei per Abidjan, in Costa d’Avorio, dove avrebbe dovuto sottoporsi a un rito vudù di disintossicazione. Basquiat è morto, Basquiat è una star. Eternamente giovane e bello, nel momento esatto in cui la sua vita finisce diventa icona contemporanea. Triste pensare che, a volte, serva la morte per realizzare un sogno.

Nelle immagini che si trovano ovunque, in rete o nelle pubblicazioni, Jean-Michel è sempre uguale: i lineamenti immobili nel tempo dei suoi vent’anni, lo sguardo carismatico e la sfrontatezza dalla giovinezza a ricordarci che per noi gli anni, invece, trascorrono inesorabili. Quel giorno di trentatré anni fa, io avevo cinque anni e mezzo ed è lecito pensare che a Modena ci fosse più o meno lo stesso caldo che faceva a New York. Probabilmente quella fu una delle prime volte che sentii di quando quell’artista americano molto famoso aveva fatto un enorme ritratto a mia madre con un casco di banane. I miei genitori lo hanno sempre raccontato, ridendo, alle cene di famiglia o a quelle con gli amici. Sono sicura che, invece, quella volta, quando io avevo cinque anni e mezzo e loro circa trenta, nel parlarne avevano la voce rotta dalla tristezza e da quella sensazione malinconica del sentire che un pezzo di vita – sua, tua, nostra – se ne è andato per sempre. Da quando ho memoria, Jean-Michel Basquiat è sempre lì, con quel suo volto non segnato dal tempo, mentre io sono diventata bambina, ragazza, sua coetanea (e per un secondo ci siamo guardati come se condividessimo un segreto) e poi sono cresciuta, ho visto il mio corpo scolpito dai segni della vita, sono nati i miei figli, i miei genitori sono invecchiati. Guardare quelle immagini è un po’ come quando pensiamo a noi stessi e ci vediamo immobili in una fotografia scattata in quella stagione che profuma di primavera, come se una parte di noi ci volesse fermi lì, in una giovinezza eterna.

Febbraio 1981

Riavvolgiamo il nastro. Come ci è finita mia madre in un quadro di Basquiat che oggi, presumibilmente, vale milioni di dollari? Prima di quella calda giornata d’agosto dove tutto finisce ce n’è una, freddissima, dove tutto ha inizio. New York, febbraio 1981. Esattamente quarant’anni fa. Jean-Michel ha vent’anni ed è sulla scena del graffitismo con il nome di Samo – same old shit – e il suo amico Diego Cortez lo inserisce tra gli artisti di “New York/New Wave”, la mostra al P.S.1 di Long Island poi entrata nella storia. Lì, quella sera freddissima di San Valentino, si danno appuntamento i nomi più importanti del mondo dell’arte e tra questi c’è Emilio Mazzoli, gallerista quarantenne che, in Italia, ha lanciato il movimento della transavanguardia.

Invitato dallo stesso Diego Cortez e consigliato da Sandro Chia, Mazzoli si presenta all’esposizione, che raccoglie alcune opere dei nomi più importanti della scena: Keith Haring, Robert Mapplethorpe, Fab 5 Freddy, William Burroughs e Andy Warhol, giusto per dare un’idea. In giro per le sale, oltre a Emilio Mazzoli, ci sono René Ricard, che poco tempo dopo firmerà l’articolo The radiant child su Artforum (si presenterà a casa di Jean-Michel per intervistarlo e lui gli aprirà la porta nudo, come racconta Jennifer Clement in La vedova Basquiat); Edit DeAck, Annina Nosei e Bruno Bischofberger. Guardano le opere di Jean-Michel e ne restano profondamente colpiti ma solo Mazzoli, il giorno dopo, entra nel suo appartamento, acquista disegni per 10mila dollari e lo invita a esporre nella sua galleria di Modena, per quella che a tutti gli effetti diventa la prima personale italiana ed europea di Basquiat, che per l’ultima volta accetta di firmarsi Samo.

E lì, in quella galleria dove Jean-Michel arriva con una sacca piena di disegni e cassette di musica, i dreadlock e i vestiti sporchi di colore, ad aprirgli la porta trova mia madre, Rossana Sghedoni, assistente ventitreenne di Mazzoli. In quel momento – la porta che si apre, il sorriso di mia madre, l’entusiasmo della giovinezza – la sua storia e quella della mia famiglia si intrecciano per un frammento di tempo.

Prima della leggenda

Le storie sono sempre più grandi di quello che immaginiamo. Di Basquiat conosciamo gli eventi che ne hanno accompagnato la morte – droga, overdose, fama, fragilità – e quello che è successo dopo: star dell’arte internazionale con le sue opere battute per milioni di dollari, icona pop, volto sui manifesti, fonte di ispirazione per musica – i The Strokes, nel 2020, hanno usato un suo quadro per la cover di un album – e per la moda, con abiti, scarpe, accessori stampati con i suoi disegni. Seguendo il suo hashtag su Instagram ci si rende conto di quanto sia presente nell’immaginario collettivo e intergenerazionale. Molti conoscono la sua breve e intensa vita grazie al film di Julian Schnabel (che, oltre a dirigerlo, dipinse le opere di Basquiat per le scene, dopo che il padre dell’artista rifiutò di prestare le sue e vietò agli altri di farlo), dove David Bowie interpreta Andy Warhol, altra figura fondamentale del suo percorso umano e artistico: la Factory, gli eccessi, le donne, i frigoriferi dipinti, i ritratti vestiti da boxeur e le mostre nelle gallerie più importanti. Quella è storia nota, leggenda, mito.

C’è un prima, però. Quel momento in cui i sogni sembrano acquisire forma concreta, dove se allunghi la mano puoi sfiorarne la materia. Michel Nuridsany, nella biografia dedicata all’artista, parla di «preludio alla gloria» e racconta di quando, una sera, davanti a un ristorante di Prince Street, un giovane Basquiat sconosciuto vede Warhol a cena con Henry Geldzahler. Il primo è il suo mito, mentre il secondo è il «curatore vivente più potente e controverso» con un incarico al Metropolitan Museum.

Jean-Michel resta a fissarli per quindici minuti – e già sembra che quella dimensione temporale sia dettata dal destino – e poi decide di entrare, punta verso Warhol e gli chiede se vuole acquistare le sue cartoline, piccoli disegni che vende per raccattare qualche soldo. Andy lo guarda e ne prende alcune. Geldzahler, invece, non solo non ne acquista definendole «acerbe» ma gli chiede, con tono spocchioso, che cosa ha in mente. E lui gli sbatte in faccia il suo famoso «la regalità, l’eroismo e a strada». Così, senza paura, con quell’irriverenza che solo la giovinezza ti regala. Poi arriva il docu-film New York beat movie di Edo Bertoglio, meglio conosciuto come Downtown 81 dove Jean-Michel Basquiat praticamente interpreta sé stesso, un artista di Downtown senza un soldo, insieme a un cast che vede Debbie Harry, Vincent Gallo e i Dna di Arto Lindsay. Phoebe Hoban, nella biografia che gli dedica, racconta che Jean-Michel non dovette neanche fare il provino del film, sceneggiato da Glenn O’Brian che al tempo lo ospitava spesso al programma Tv Party, una sorta di proto-David Letterman Show. Lui si stabilì, con la disinvoltura di una futura star, negli uffici della produzione sopra il Great Jones cafè. Proprio di fronte al loft che avrebbe occupato da ricco e famoso. È il dicembre del 1980 e il destino sembra di nuovo strizzargli l’occhio.

Sentire il successo

Torniamo a quella notte fredda di San Valentino, alla mostra New York/New Wave di Diego Cortez, a Basquiat che è talmente acclamato che al termine di una lunga nottata di festeggiamenti si fa portare in limousine davanti a casa del padre, che non sente da tempo, suona il campanello e gli dice «ce l’ho fatta»; a Emilio Mazzoli che lo invita in Italia, a lui che bussa alla galleria e a mia madre che apre la porta (la storia la racconto in Basquiat – Viaggio in Italia di un formidabile genio, Compagnia editoriale Aliberti, 2021). In quel momento inizia a sentirlo, il successo, lo vede nella camera di hotel prenotata per lui, negli spazi a disposizione per dipingere, negli sguardi delle ragazze conosciute in un piccolo club – lo Snoopy – che gli fanno la posta davanti alla galleria irritando Mazzoli, che costringe mia madre a cacciarle per paura che distraggano il suo artista, già così difficile da gestire.

Lo sente nelle parole di Diego Cortez che gli assicura che quella mostra, con quel gallerista, servirà ad aprire le porte degli spazi più importanti (e così sarà davvero, con Annina Nosei e Bruno Bischofberger). Lo sente, il successo, ma è ancora il ragazzo che condivide tele e pastelli con mio zio Andrea, allora ottenne, al quale chiede di disegnare insieme macchinine sui suoi quadri, quello che passa le nottate a fare tag sui muri della città o che ride rumorosamente alla proiezione di Freak di Tod Browning, in un piccolo cinema pieno di fumo, dove è andato con i miei genitori.

È ancora quel ragazzo che incassa i commenti razzisti che accompagnano il vernissage e poi alla festa improvvisata da un collezionista ha una liaison con la fidanzata del padrone di casa, e lo fa senza preoccuparsi troppo di nasconderlo. Non sarà lo stesso Jean-Michel a tornare a Modena un anno dopo. A New York viene accolto da Annina Nosei che lo trasforma in una star e, quando si presenta per la seconda mostra da Emilio Mazzoli, i vestiti sono sempre sporchi di colore ma firmati da grandi stilisti, la droga sta iniziando a lasciare il segno e, con il successo, una parte di quel ragazzo irriverente ed entusiasta inizia a sbriciolarsi irreparabilmente.

È in quei giorni della primavera 1982, che Basquiat produce opere importanti – la serie modenese – tra cui Il Diavolo Nero, battuto nel 2016 da Christie’s per 56 milioni di dollari, su quelle enormi tele “b20” commissionate da Mazzoli alla ditta Poggi di Roma, già usate da Schifano, De Chirico, Guttuso, Morandi e Dalì. È uno di quei pomeriggi che, preso dalla noia, va insieme a mia madre in un negozio di colori e materiale per dipingere. Lì trova alcuni quaderni per pittori principianti sull’arte classica italiana e li acquista. Lo aveva già fatto a New York, Jennifer Clement, in La vedova Basquiat, racconta che un giorno chiese a Suzanne Mallouk se si doveva preoccupare visto che era quasi famoso ma ancora non sapeva dipingere e lei gli rispose «imparalo da te» e lui compra sette libri della serie “Come disegnare”. Suzanne è uno dei suoi due grandi amori e sembra che fu lei ad accompagnarlo in Italia nel 1982, anche se ci sono poche tracce di questo passaggio, mentre è piuttosto certo che più o meno nello stesso anno picchiò Madonna in un club, accecata dalla gelosia per la sua relazione con Basquiat, scena che quest’ultimo dipinse in un quadro la notte stessa.

Jean-Michel, ancora una volta ispirato da quei manuali di pittura, convince mia madre a posare per lui, avvolta in un lenzuolo bianco e con un casco di banane vicino. Mi ha sempre detto che hanno riso molto, quel pomeriggio, e che alla fine, con un po’ di sollievo, ha pensato che nessuno l’avrebbe mai riconosciuta. Vorrei dirle che, alla fine, non è andata proprio così. La mostra non si fa, Jean-Michel torna a New York con Annina Nosei e la storia dei sei anni successivi, che lo separano da quel 12 agosto 1988 dove la sua fiamma si consuma, è nota. Sono trentatré anni che Jean-Michel Basquiat è morto e di lui restano un migliaio di opere sparse per il mondo, la leggenda della sua vita e la certezza che quell’idea di giovinezza – sua e in fondo anche un po’ nostra – ci accompagnerà per sempre.

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