Viola Di Grado non ha ancora trentacinque anni eppure è una delle scrittrici italiane più originali e carismatiche, nonché una delle più lette e tradotte all’estero.

Il segreto della sua voce sta forse tutto nella devozione senza compromessi che sin dal suo folgorante esordio – Settanta acrilico trenta lana, premio Campiello Opera prima nel 2011 per «l’invenzione linguistica spinta fino alla visionarietà» – riserva alla letteratura, all’accettazione del distacco dal mondo necessario per vederlo meglio e portarne alla luce frammenti inusitati e conturbanti. Una direzione confermata ora dal suo quinto romanzo, Fame blu, da poco in libreria per La Nave di Teseo, che racconta, attraverso un grande lavoro sulla lingua e le sue possibilità, un tentativo di metabolizzazione del lutto che si fa deragliamento erotico-allucinatorio in una Cina narrata con un’intensità espressiva che, già da sola, vale la lettura dell’opera.

In questo romanzo dai capitoli intitolati a parti del corpo – da “Bocca” a “Mani”, passando per “Crosta”, “Grasso”, “Pezzi di polmone” – la protagonista, il cui nome resta segreto, si trasferisce a Shanghai, da Roma, a pochi mesi dalla morte del gemello, per vivere quello che era il progetto di vita del fratello defunto: «Avevo letto tutto, della Cina. Per essere all’altezza di quel sogno non mio, interpretalo in modo credibile, come un’attrice con un testo ostico in un’altra lingua. Avevo studiato tutto. La storia e la poesia, l’intelligenza della lingua: una lingua con molti simboli e poca grammatica, una lingua astratta e musicale, nata per comunicare con gli dei».

Il sentiero cinese

Ed è proprio la lingua cinese (Di Grado è laureata in lingue orientali), e più in generale la “fede nelle parole”, il sentiero sul quale si articola l’esplorazione del desiderio vissuto come divoramento e voglia di mangiare/farsi mangiare dall’altro, vivisezione, rito cannibale, “erotofagia” (come viene specificato dalla protagonista l’ideogramma per dire “amore” in cinese ha dentro “gli artigli e la notte, un buio infinito”).

La ragazza inizia a insegnare italiano e, tra una peregrinazione e l’altra in una Shanghai invischiante e contraddittoria in cui non c’è «ordine ma accumulo, come in un sogno», conosce Xu, giovane altera e sfuggente, tanto emotivamente quanto dal punto di vista linguistico.

L’inafferrabile Xu abita in una casa sommersa di cibo e colleziona ragazze-vittime come una moderna Barbablù: la protagonista inizia con lei un rapporto fatto di banchetti estremi – interiora, tartarughe, insetti – e amplessi tutti morsi e sanguinamenti all’interno di un grande mattatoio anni Trenta abbandonato, specializzato all’epoca nella macellazione di agnelli (l’amore è un massacro di cuccioli?).

Già l’incipit del romanzo restituisce lo spirito ambivalente della vicenda: «Quando Xu mi morde, quando mi ha tra i denti, nuda e cattiva su di me, io sto bene. Non è una cosa umana ma è accaduta lo stesso, come accadono i tifoni o i terremoti».

E ancora: «Mangiami, dissi. È stato mio, il primo pensiero di quel tipo. Sono stata io, per prima, a pensare il mio corpo come un frutto scervellato». L’amore è una calamità, il desiderio è sempre gerarchia, differenza di livello: Xu, racconta la protagonista, è dominante e fredda, animata dall’«attenzione cinica dei bambini che osservano le formiche trasportare cibo per poi schiacciarle all’improvviso», e aggiunge: «Non importava. Andava bene comunque».

Collisione amorosa

Quello che potrebbe sembrare un romanzo d’amore diventa però presto una stratificazione di alchimie linguistiche e visive che molto ha a che fare con le cose ultime, e chiama in causa il nostro rapporto con la realtà e i suoi fondamenti: Di Grado attraverso il racconto di una collisione amorosa radicalmente incarnata e fuori misura articola una sua originale visione del mondo, un’ontologia poetica, che lega i piani e le presenze, animata da una strana indole, quasi-panteista.

Si potrebbe dire che l’autrice scriva sotto l’influsso di una passione non distante dal nucleo affettivo dello shintoismo, religione cosmica per eccellenza: Fame blu è un romanzo che pullula di simboli ed emblemi, un romanzo in cui le varie presenze – umane, animali, celesti, vegetali, minerali – tramano, congiurano insieme per esprimere una specie di spirito sovrapersonale che oscilla tra il sadico e il compassionevole, entra/esce dai corpi e li lega ai luoghi, agli elementi naturali, a ciò che c’era o non c’è più, in un dialogo continuo con l’invisibile, il rimosso, il rinnegato.

Un romanzo d’amore che parla in realtà del cosmo intero, e forse è sempre così: ogni coppia, che sia frugale o duratura, luminosa o torbida, è una coppia primigenia, assoluta, perché ogni coppia ricrea un mondo, si crea il suo mondo, articolando il passaggio dei passaggi, quello dall’uno al due, all’essere in due.

«L’amore ci dicono che non dovrebbe fare male», e invece non c’è nulla di rassicurante, edificante in questa storia, e qui sta anche la sua forza. Fame blu onora la verità dell’amore, la sua matrice radicale, ossessiva, potenzialmente fatale.

Contro tutte le retoriche razionaliste, purificanti, sulle relazioni, che oggi, spesso anche a ragione, vorrebbero ammettere solo interazioni safe, sicure, paritetiche, questo libro racconta, con una lingua sorprendente e un caleidoscopio di annotazioni, miti, leggende del folklore orientale, l’amore come incastro di reciproci traumi, disparità inesorabile, e lo fa senza remore né giudizio.

Per Di Grado l’amore è un ripetersi confuso di atti violenti e teneri, morsi, umiliazioni, sparizioni, abbagli, ruoli che fluttuano, è il territorio umbratile dove possiamo rivivere all’infinito il trauma e trasformarlo, cambiargli forma – cos’è un trauma che brilla? –, è dove le antiche ferite – i «buchi su cui si fissano i chiodi che reggono i rapporti d’amore» – possono riaprirsi o mutare inclinazione, cicatrizzarsi in forma simbolica.

Simboli che non sono però quelli a cui le narrazioni terse, edulcoranti, ci hanno abituato, dato che gli stessi stilemi romantici vengono sovvertiti, cambiati di segno: come accade col simbolo del cuore, la cui origine storica rimanda ai semi di silfio, nati “da una pioggia nera”, che le antiche romane ingoiavano per non concepire bambini.

Lo strato fragile

«Ogni lingua porta con sé sentimenti nuovi», afferma la protagonista di Fame blu, aggiungendo poi: «A me il cinese cosa aveva portato? Un sentimento senza nome: un senso di rimpicciolimento, come avere di nuovo tre anni e un bisogno imperioso di essere presa tra le braccia».

Il sentimento che innerva questo romanzo non è proprio amore, «non è amore la stretta dei cuccioli allo zoo che agguantano una madre di peluche»: ha invece molto a che fare con l’impersonale, quello che per Simone Weil corrisponde al sacro negli esseri umani (e forse in tutti i viventi), lo strato più fragile e vulnerabile che fa toccare in uno stesso delicatissimo punto i regni e le specie.

Ci può essere una forma di bellezza anche nella desolazione, ci ricorda Di Grado, nonché nella dipendenza affettiva, persino nel lutto: spetta alla letteratura il compito di onorare questi miscugli insopportabili ai più e non molto distanti dalla disponibilità massima della tradizione mistica.

Miscugli che alludono a un rapporto quasi incondizionato col mondo, dato che, per raccontarli, è necessario accettare di mantenere lo sguardo sulle cose anche quando non possono essere corrette, rese benevole, tutte e solo buone.

Un rapporto che è un contemplare, uno stare-con, e sa dar vita a resoconti vivificanti anche quando cruenti, come quelli di questa autrice abilissima nell’onorare quel piano misterioso e cangiante che attraversa animato e inanimato, verbale e preverbale, gioia, apatia e dolore, riconciliando, come scriveva il poeta William Carlos Williams, in riferimento all’abbraccio cognitivo della pratica letteraria riuscita, “le persone e le pietre”, ovvero le presunte differenze del reale.

© Riproduzione riservata