Le pubblicità, si sa, sono il nostro inconscio. Volevo comprare una vaporiera a tre piani al mio compagno, mi sono ritrovata a guardare reels di gente che sbava davanti alla nuova pubblicità di Calvin Klein perché c’è Jeremy Allen White che sale le scale d’emergenza di un palazzo di Manhattan e poi, una volta arrivato sul tetto, si butta su un divano che sa di polvere e resta in scarpe da ginnastica, un sacco di muscoli e un paio di mutande striminzite (l’avrete visto anche voi). Un’esperienza meta tra gli specchi del metaverso.

Così ho iniziato a guardare The Bear, la serie tv che ha vinto moltissimo (tra Golden Globe ed Emmy) in cui JAW è il protagonista, e adesso voglio quasi comprare al mio compagno un nuovo paio di slip attillati e costosissimi che non indosserà mai.

Un ricordo doloroso

The Bear è morbosa e molto bella. Racconta quanto siamo ossessionati dalla cucina, ma in generale quanto un’ossessione può essere anche un rifugio alienante: per Carmen “Carmy” Berzatto (JAW), essere chef è dove si incontrano amore e risentimento. È un incubo, insomma, proprio come lo è ostinarsi a mandare avanti il ristorante disastrato che il fratello maggiore, morto suicida, gli ha lasciato in eredità.

Man mano che le puntate della serie e i soldi di Carmy finiscono, la passione per la cucina si rivela come un alibi per non elaborare la morte di Michael: il lutto è una parete di cartongesso che si potrebbe rompere facilmente ma non si rompe, invece, mai (spoiler: accade nella seconda stagione, ma è solo un piccolo pezzo di muro del ristorante che si chiama, appunto, The Bear). Mickey compare infatti solo a sprazzi violentissimi che accecano la memoria di Carmy. La sua morte è un evento troppo doloroso perché possa arrivare davvero alla mente dello chef stellato, il figliol poco prodigo che, da quando torna a casa, in una Chicago di periferia e in una famiglia piena di problemi, sente ripetersi costantemente: «Pensavi davvero di essere migliore di noi?».

Alleanze pericolose

Non si parla mai abbastanza di amori tossici tra parenti, ma lo fa benissimo la psicanalista Laura Pigozzi, per esempio proprio a proposito di legami di sangue “orizzontali”, in Sorelle. Il mistero di un legame tra conflitto e amore, Rizzoli, 2021.

Pigozzi arriva a parlare della condizione di sororità (e di gemellarità, anche maschile) dopo aver dedicato la maggior parte dei suoi libri al rapporto “verticale” tra madre e figli e aver coniato il termine di plusmaterno.

Modellato sull’analogia col plusgodimento lacaniano e, dunque, col plusvalore della teoria marxiana, descrive quel godimento opaco, narcisistico, che la madre può provare di fronte al figlio quando vorrebbe infliggergli un’eterna infantilizzazione pur di non renderlo mai del tutto indipendente da sé.

Tanto il plusmaterno quanto, al contrario, il minusmaterno impediscono, per soffocamento o per abbandono, la realizzazione del matricidio simbolico e di quella “quota d’odio” (p. 203) così fondamentale per la formazione del carattere dell’individuo.

Nel caso in cui una madre, abusando del proprio ruolo, non riesca a farsi da parte, sollecita alleanze pericolose e totalizzanti tra sorelle (cfr. i casi di cronaca di cui si occupa Pigozzi) o costringe la figlia a cercare un Altro che soddisfi il suo bisogno di rivivere ancora il proprio trauma: «Perché siamo portati a rivivere ciò che ci ha traumatizzato e non abbiamo ancora capito ed elaborato» (p. 231).

Di fratelli che non sanno o non possono comunicare anche per colpa di un’ingombrante e insieme inadeguata figura materna parla appunto The Bear: non è un caso che in una lunga bellissima eccezione in cui vediamo Mickey e Carmy finalmente insieme, sperimentiamo anche il peso di una madre, direbbe Pigozzi, minusmaterna (secondo spoiler, non dico dove e come).

Un libro su due fratelli

Nella nostra letteratura recente c’è un interessante esempio che ripercorre gli stessi meccanismi psicologici, ma sotto il segno di una funzione paterna del tutto sballata: bisognerebbe chiedere a Pigozzi di fare un libro anche su questo.

Il secondo romanzo di Filippo d’Angelo, Le città e i giorni (nottetempo, 2024), racconta infatti la storia di due uomini adulti e più o meno realizzati che non sanno commettere né matricidi né patricidi: pur di non farlo, anzi, Emanuele Regondi parte missionario, sperando che l’Africa e il mantello di pregiudizi ed errori di cui si avvolge bastino a preservarlo dal rischio di tornare in famiglia; mentre il fratello Maurizio accetta di mollare Parigi, mettere a rischio il proprio matrimonio e il rapporto con la figlia per dirigere la costruzione di un grattacielo fallico che il padre ha progettato proprio per lui.

Che cosa non si fa pur di rivivere sempre i nostri traumi – oppure rimuoverli. In questa cocciutaggine, Maurizio è simile a Carmy.

La scena finale del romanzo di d’Angelo, che è un flashback ma potrebbe anche non esserlo (i due protagonisti non escono mai dallo stato di minorità), vede Maurizio ed Emanuele bambini, immersi in un’amara simulazione del sabotaggio: «I due fratelli giocano allora a lanciarsi addosso palle di amianto, a volte se le spiaccicano sulla faccia, sino ad averne piena la bocca, quasi a soffocarne» (p. 330).

L’ironia tragica e rabbiosa del romanzo si intravede anche da qui: dal fatto che Maurizio sa che quella di Emanuele è «un’infantile coazione a ripetere» (p. 323), ma in quest’analisi non sa rispecchiarsi.

L’asimmetria temporale e spaziale che separa la vita dei due fratelli è così vertiginosa che, al confronto, la parete di cartongesso del ristorante The Bear perde un po’ del suo valore metaforico (ma segnala comunque l’ossessione degli americani per i materiali a basso costo).

Non ci sono ponti tra i due piccoli adulti Regondi perché il padre non è per niente «evaporato»: è ancora lì, a chiedere a uno dei figli di innalzare il suo gigantesco «cazzo ammosciato» (p. 16) nel centro di Milano.

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