«Un ex hippy sulla quarantina rosolato dal sole [...] una divorziata portoghese mezza matta [...] un surfista dagli occhi elettrici blu [...] un ex carcerato trafficante part time di metadone (e poi Tyrone) due metri e mezzo per centottanta chili di ossidiana scolpita con la testa completamente rasata, un dente anteriore sporgente e ricoperto da una capsula d’argento e il consueto orecchino ad anello grande quanto un pugno». Sono estratti da alcune tra le molte descrizioni di brigate che si trovano in Kitchen Confidential dello chef Anthony Bourdain, il libro che nel 2000 ha cambiato molto della maniera in cui si raccontano le cucine e quindi dell’immaginario collettivo intorno a chi ci lavora.

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La serie tv

The Bear, dal 5 ottobre su Disney+, è il figlio più dinamico, elettrico e americano (nel senso calvinista) di questo cambio di immaginario. La serie incrocia un qualsiasi capitolo di Kitchen Confidential con Whiplash di Damien Chazelle, con in più un po’ di Martin Scorsese e la sua passione per l’uso della musica per creare eccitazione da cocaina unita a un senso incalzante di pericolo imminente.

Otto puntate da circa mezz’ora che adattano uno spunto da cinema criminale ma tradotto nel mondo della ristorazione: qualcuno di potente e arrivato in alto nella scala professionale deve ricominciare dal livello più infimo rischiando tutto.

Il protagonista è uno dei cuochi emergenti tra i più noti e sofisticati che si ritrova in una bettola italiana che serve panini con carne a Chicago.

Perché sia finito lì, perché ci tenga così tanto a cambiare tutto di quel posto e invece non se ne vada, ci viene rivelato con una grande idea solo all’ultima puntata, momento in cui capiamo davvero la storia dopo che la serie ci ha tenuti attaccati per le precedenti sette con la forza del ritmo e del mutamento.
 

Brigate di pirati

Come in tutte le serie tv il punto è l’insieme, non per forza il protagonista e il suo arco, ma come storie di diversi personaggi e delle relazioni che stringono si intreccino creandone una sola: «Come viviamo insieme e in ultima analisi moriamo da soli» (definizione magistrale della nuova serialità che diedero Lindelof e Cuse, sceneggiatori di Lost).

La brigata del The Original Beef of Chicagoland (questo il nome del posto) però è anche la dimostrazione più flagrante di quanto il racconto delle cucine, dei ristoranti e del lavoro dei ristoratori sia cambiato in questi ultimi 20 anni.

I cuochi al cinema e in tv sono sempre stati scorbutici ma il mondo intorno a loro non ha mai interessato nessuno fino a Bourdain e al primo film grande e famoso che ha sfruttato questo diverso immaginario: Ratatouille.

Solo sei anni dopo la prima uscita del libro il cartone della Pixar (la casa di produzione che più ha rivoluzionato il cinema dei suoi anni) raccontava una brigata come un insieme eterogeneo di avanzi di galera e maniaci ossessivi, gente poco raccomandabile unita a persone di polso con ambizioni giganti e passati discutibili.

Una ciurma di pirati più che una squadra di ingegneri che è unita per realizzare qualcosa che richiede tecnica, manualità e l’impensabile, cioè lo spunto che consente il salto tra buono e incredibile. In quel film poi l’idea era che il più assurdo di tutti i membri di brigata fosse l’outsider per eccellenza della cucina: un topo.

Creare valori

In The Bear la cucina è uno strumento di miglioramento di sé. Il protagonista vuole far funzionare quel posto a tutti i costi, applicando una mentalità da ristorante stellato. La parte più complicata di questo è infondere in persone abituate a percepirsi come manovalanza di un postaccio una mentalità differente, una che desidera di più dalla vita.

Cosa più interessante ancora è che questa serie rifiuta quasi del tutto la carta che ogni narrazione audiovisiva sul cibo ama giocare, cioè la succulenza dei piatti.

Poche volte vediamo degli assaggi, più frequente la cottura, da vicino perché a The Bear interessa il dolore, il rischio, la sofferenza e il gioco con poste molto alte, preparazioni ambiziose e quantità assurde (il The Beef è quasi un fast food quando la serie inizia, molto cibo molto standard e molto in fretta).

Usa il sonoro montato rapido per rendere il dolore della fiamma e il ticchettio dell’orologio, usa l’elevated rock dai Radiohead ai Pearl Jam, dai Wilco a Van Morrison, come finta musica di sottofondo del locale proprio in questa direzione, perché la cucina è quella cosa lì: un luogo in cui ogni regola va rispettata perché si possano rompere tutte e creare qualcosa di valore.

Fame di vita

La ragione del successo delle storie di cucina dei nostri anni sta esattamente in questo contrasto, quello a suo modo fomentato dalla rivoluzione di immaginario portata da Bourdain: un ordine e una disciplina implacabili che piegano le persone più pericolose, diverse ed emarginate attraverso la tensione.

I piatti devono uscire e come si conviene accade di tutto, dalla visita dell’ufficio d’igiene a cui non sono preparati, alla mancanza improvvisa di luce, ogni volta la risposta sta nell’incanalare la brutalità, la forza e quell’energia da gente di strada verso i piatti. Spaccio di droga accanto a rinfreschi per feste di bambini, medicinali, mazzette di soldi nascosti, incubi e flashback del passato.

Christopher Storer (che la serie l’ha creata) per otto puntate declina questa energia in modi diversi, portando avanti la storia della purificazione di un intero ristorante attraverso l’organizzazione. Come se solo un certo tipo di persone, affamate di vita, di ardore e con il carattere più vitale e incontrollabile, possieda l’energia sufficiente a gestire quella pressione.

L’ordine dentro

Che questo sia il contrasto cruciale nel modo in cui raccontiamo la cucina oggi lo mostrano i volti dei protagonisti. Come già per Il sapore del successo (uno dei film migliori sull’argomento), in cui la faccia bella con gli occhi chiari di Bradley Cooper nascondeva un carattere terribile e una disposizione d’animo tempestosa e autolesionista, anche qui la faccia dello chef che vuole cambiare tutto, che ha perso la sua chance negli stellati quando era all’apice e ora deve piegare quello che non sembra piegabile, è un paesaggio a sé.

Lo interpreta Jeremy Allen White (già noto a chi vedeva Shameless), volto rovinato con cicatrici ma occhio a mezz’asta affascinante, pupille chiarissime su capelli arruffati, pelle da bambino ma pieno di tatuaggi caotici e disordinati.

L’ordine è sempre dentro, mai fuori, urla e perde il controllo, ma il bancone è pulito, gestisce omoni afroamericani e una sous chef ancora più determinata di lui attraverso un misto di sguardi di comando e soluzioni impreviste.

L’obiettivo non è mai essere veri, reali o documentare come lavori davvero una cucina. L’obiettivo, come sempre nel cinema e nella miglior serialità, è avvicinarsi a come le cose sono e poi scappare via, rincorrere un immaginario collettivo che è fatto di realismo più astrazione.

Non le cucine per quello che sono ma per quello che possono creare dentro di noi, per quello che raccontano degli esseri umani, per le storie che possono contenere più che per quelle che davvero contengono (per quello ci sono i documentari).

Le cucine come il far west, lo spazio profondo o le stazioni di polizia, luoghi in cui archetipi narrativi misurano il loro valore perché noi possiamo riconoscerci, respingerli o ammirarne l’ascesa e caduta trovando qualcosa di nostro e profondo. Che questo avvenga, finalmente, con il mondo del cibo e il racconto del caos che trova ordine nel piccolo spazio di un piatto in ogni cucina ogni giorno è un grande cambiamento.

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