Forse sono una cattiva femminista perché non mi sono indignata davanti al tutorial su Rai2 che insegnava alle donne come fare la spesa sexy e sedurre gli uomini incontrati al supermercato.

Certo, non mi ha fatto ridere – non era ciò che definirei spassoso – ma l’ho guardato come si trattasse di un insetto su una foglia: totalmente in sintonia con l’ambiente circostante.

O forse sono una cattiva femminista perché una sera, fuori da un locale, ho visto un gruppo di ragazzi darsi di gomito mostrandosi a vicenda alcune foto di ragazze, li ho sentiti usare un linguaggio in cui la donna è solo un passivo pezzo di carne, e non sono riuscita a dire nulla. 

O, ancora, forse sono una cattiva femminista perché leggendo che Coop ha scelto di abbassare temporaneamente l’Iva al 4 per cento sugli assorbenti non mi sono sentita di additare subito la faccenda come una goffa mossa di pink-washing necessariamente dannosa. Ne prendo atto e rimango con la speranza che anche questo possa favorire la sensibilizzazione sul tema presso istituzioni, società civile e media.

Poi leggo un commento: «Non c’è niente di cui gioire, gli assorbenti inquinano, ormai l’unico modo è passare alla coppetta e agli assorbenti lavabili, dovreste averlo già capito!».

Ecco, è successo di nuovo: ho gioito per la cosa sbagliata.

Sono una cattiva femminista perché, in ognuna delle tre situazioni, immagino come si sarebbe comportata una buona femminista: davanti al programma si sarebbe indignata; davanti al gruppo di idioti si sarebbe fatta sentire; alla notizia della Coop avrebbe risposto che non bisogna rallegrarsi per queste briciole.

La compagna che sbaglia

Oggi è l’8 marzo: non è la giornata delle femministe, ma la giornata internazionale delle donne. Questo, forse, varrebbe la pena che venisse ricordato. Perché né una donna è per forza femminista (peccato), né una persona femminista è necessariamente donna (sorpresa!).

Ma è doveroso ricordare che oggi si celebrano tutte: anche quelle non femministe. Anche quelle che si sentono cattive femministe.

Facciamo un passo indietro. Chi è la cattiva femminista?

La cattiva femminista è una “compagna che sbaglia”: crede fermamente nella parità di genere, eppure a volte indulge in abitudini e comportamenti apparentemente in contraddizione con l’ideale femminista. È una specie diffusa a ogni latitudine, e si distingue per un discreto quantitativo di ansia in merito al suo essere femminista.

La cattiva femminista, insomma, è quella che non sempre ce la fa, non è impeccabile, e ha paura che il femminismo sia un sistema a punti in cui ne puoi perdere tre ogni volta che ti senti chiamare “tesoro” e non reagisci. O se conosci tutta la discografia di Eminem a memoria. O se un paio di film di Polański sono tra i tuoi preferiti. O se hai fantasie romantiche su villetta bifamiliare, marito e marmocchi.

Bad feminist – cattiva femminista – è l’espressione che dà il titolo alla raccolta di saggi di Roxane Gay, docente, romanziera, saggista e giornalista americana di origine haitiana.

Come l’autrice scrive in un passaggio fondamentale, nonché fulminante inizio del suo Ted Talk del 2015:

«Sto fallendo come donna. Sto fallendo come femminista. Accettare gratuitamente l’etichetta di femminista non sarebbe giusto nei confronti delle buone femministe. Se lo sono, femminista dico, sono una cattiva femminista. Sono un casino di contraddizioni. Ci sono molti modi in cui sto facendo male il femminismo, almeno secondo i modi in cui la mia percezione del femminismo è stata plasmata dal mio essere donna» (traduzione mia).

Attraverso questa etichetta, Gay vuole provocare per portare avanti un ragionamento serio: ammettendo di amare il rosa, di dimenarsi al ritmo di canzoni che hanno testi volgari, di aver voglia di essere accudita e di interessarsi di moda, Gay si incorona “cattiva femminista”.

Una femminista non impeccabile, quindi, con gusti discutibili che sembrerebbero puzzare di patriarcato da km di distanza. Una che sente di dover confessare i suoi “guilty pleasure” come fossero marachelle.

Farebbe molto ridere se non fosse che queste preferenze private, questi peccatucci veniali, fin troppo spesso vengono innalzati ad argomento serio. È assai curioso quanto, come società, siamo ossessionati e ossessionate da consumi, gusti e tendenze privati delle donne: un dettaglio anche secondario sembra poter restituire l’interiorità, gli ideali e i valori di una persona. Un dettaglio può fare la differenza tra buona e cattiva femminista.

Come può redimersi, dunque, questa nostra cattiva femminista?

Chiariamoci: i suoi comportamenti e gusti possono pure essere inappropriati, ma la cattiva femminista è pur sempre una femminista: lotta per l’uguaglianza dei generi, crede nella necessità di raggiungere parità politica, sociale ed economica, ed è convinta che una società migliore sia caratterizzata da identiche opportunità, giustizia sociale, libertà sessuale e riproduttiva, fine della cultura della violenza, rispetto delle scelte di vita.

Perché chi mette in dubbio questo non è una cattiva femminista: semplicemente non è femminista.

LaPresse

Prima di tutto sé stesse

Ma no, no: noi stiamo parlando di ben altre cose. Si è capito ormai che il cattivo femminismo si gioca su altri livelli: amare un certo colore, ascoltare un tipo di musica, non indignarsi ogni volta che si dovrebbe.

Non possiamo illuderci: non esiste redenzione per la cattiva femminista. Esiste solo una presa di coscienza basilare: una persona è prima di tutto sé stessa e solo dopo una femminista.

Sembra quasi che chiunque si avvicini al femminismo debba attraversare la fase della cattiva femminista finché non riesce a concepire che, in realtà, lo sta facendo nel modo giusto: non è possibile né utile sacrificare la propria personalità sull’altare di una malsana aspirazione a essere femminista buona, perfetta, impeccabile.  

Se quindi, invece che un sistema a punti, ci mettiamo d’accordo e concepiamo il femminismo come una pratica quotidiana e un percorso, ecco che la buona e la cattiva femminista non esistono più ed emerge una nuova figura: la femminista in cammino.

Perché la cattiva femminista è la femminista che non ha ancora capito che solo attraverso il proprio essere sé stessa con tutti i dubbi quotidiani, i tentennamenti, solo andando per prove ed errori (ascoltando–ripetendo–migliorando), si è all’altezza del femminismo.

L’unico modo per coesistere insieme è sapersi dare una seconda possibilità quando si sbaglia, perdonare le incomprensioni, credere nell’auto-educazione e nel mutuo insegnamento: da pari ognuna insegna qualcosa in più all’altra. Rinunciare a essere guidate dall’ossessione morbosa per la quale sogni, abitudini, desideri e gusti che si consumano nella vita privata sanno dirci al 100 per cento se una donna è una cattiva o buona femminista.

Non per lasciarsi andare a un facile ecumenismo e chiamare femministe tutte le donne – anche quelle disinteressate al tema –, ma per dare la possibilità di riconoscere come femminista anche chi, a un primo sguardo superficiale, non si direbbe mai che lo sia.

Perché possiamo avere gusti discutibili e lacune in storia del femminismo ma soprattutto possiamo orientare le nostre azioni e il nostro attivo stare nel mondo. Ovvero parlare, discutere, cambiare opinione. Aprirsi a considerazioni più informate delle nostre. Decidere di approfondire perché ci piace un certo tipo di musica, perché ogni tanto abbiamo paura di esporci, perché siamo così fallibili.

Essere una cattiva femminista appare, a questo punto, non solo probabile ma imprescindibile: tutte siamo o siamo state cattive femministe in cammino verso la versione migliore di noi stesse. E camminare è già migliorare.

Lo diceva J.P. Sartre e possiamo dirlo anche noi oggi, al netto dei moralismi – reali o immaginari che siano: «È vero che non sei responsabile di quello che sei, ma sei responsabile di quello che fai di ciò che sei».

Che, aggiornato, potrebbe suonare all’incirca così: «Non sentirti in colpa per la cattiva femminista che sei, ma sentiti responsabile di ciò che fai per essere sempre un po’ migliore».

E buon 8 marzo a tutte.

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