Elegante e pieno di grazia, libero dai codici dell’ambiente da cui lui stesso proviene: Ghali l’ha fatto di nuovo. Dopo i primi record nel 2017, e i tormentoni – Cara Italia, Good Times –, la sua formula magica sul palco dell’Ariston è stata un contro-incantesimo più forte del delirio dei sovranisti, e ha conquistato tutti.

Le polemiche mediatiche montate in queste settimane hanno dimostrato di non poter scalfire la sua aura: il cantante milanese ha fatto quello che voleva fare, detto quel che doveva dire, ma non ha indugiato nel commentario scomposto dei giorni successivi.

Il fuoco rimane, deve rimanere, sull’espressione dell’universo creativo, la combinazione superiore di forma e contenuto che da sempre lo caratterizza, affinché non si commetta l’errore di pensare che la sua aspirazione si limiti a una finestra di clamore. Per Ghali si è sempre trattato di questo: alzare il livello.

Il fascino della mescolanza

È come se ci fosse stato un posto vuoto nell’immaginario del nostro paese e Ghali lo avesse riempito. “Sono un italiano vero”, ha intonato nella serata dei duetti, subito dopo le struggenti strofe arabe della sua Bayna: questa, anche questa, è la verità degli italiani (reali) del 2024.

Contro l’ossessione identitaria delle destre, che solleticano retoriche nazionalistiche e da purezza della razza, questo trentenne nato da genitori tunisini, e cresciuto nella periferia di Baggio, saltella tra i confini e dissemina luci colorate, imbastendo il suo personale santuario pop della contaminazione.

A Sanremo Ghali ha materializzato davanti agli occhi degli italiani, a colpi di strass e chiffon, un dato di fatto, semplice eppure potente. L’Italia della mescolanza, ci ha ricordato, è più affascinante di quella dei cuori blindati dalla paura. L’ibridazione è una promessa dall’orizzonte più entusiasmante, un gioco in cui gli esseri umani possono divertirsi di più, creando qualcosa e non solo ripetendo i copioni di ieri. Era impegnato, era politico, ma era soprattutto bellissimo, in un senso che è insieme corporeo e ideale, stilistico e morale.

Smentire il destino

Ghali è un rapper molto diverso dagli altri, lo è stato sin da Ninna Nanna e Happy Days, e finalmente sembra che l’Italia se ne sia accorta. Come Mahmood è cresciuto solo con la madre (dopo l’arresto del padre), e in entrambi è come se la lontananza della figura paterna – la regola, ma anche l’esempio, il prototipo da emulare – fosse diventata possibilità di trasformazione.

Spesso chi nasce in periferia tende a prendere la forma di ciò che ha attorno, sentendosi confinato per editto divino all’interno di un recinto a parte rispetto al mondo di chi può scegliere che lavoro fare, che vestiti indossare, che cibo mangiare. Forse avere famiglie ammaccate, amputate, accanto al dolore che ragionevolmente comporta, a un certo punto, per qualcuno, si rivela anche un modo per alterare il sistema, smentire il destino.

Vedendo la luce di Ghali, così come quella di Mahmood, viene da pensare che proprio l’assenza del padre abbia contribuito alla necessità di immaginarsi diversi, spezzare un circolo triste, covando un desiderio sconfinato di altro.

Paglia nel Sahara

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In uno dei suoi pezzi più belli, Come Milano, Ghali lo dichiara apertamente: “E io continuo a bruciare come paglia nel Sahara, questo è per chi si è sentito solo, con un padre che non chiama”. L’alleanza con la madre, insieme allo stigma razziale, ha reso Ghali un esponente della scena urban anomalo, non machista (i tweet della post-adolescenza li consideriamo prescritti), contrario alle droghe pesanti e interessato alla spiritualità, alla preghiera. Un rapper refrattario al corredo di stereotipi e pose con cui chi cresce per strada impara presto a crearsi una corazza di contrapposizione e rivalsa.

L’ambiente musicale che arriva dalle periferie offre emancipazione economica ma spesso non altera, non migliora certi disvalori di partenza. Forse la storia famigliare di Ghali, educato più alla via del sentimento che a quella del branco, gli ha consentito una libertà maggiore.

Frecce al cielo

Come spesso fa, a Sanremo ha indossato anche capi femminili, autonomia estetica che da sempre rivendica (al variare delle fidanzate), suscitando le reazioni dei colleghi più tradizionalisti. Nel 2020 Guè disse, proprio in riferimento ai suoi look: «Vedere un rapper che va in giro vestito da donna, con la borsetta, mi fa ridere. Vestito da confetto può andare bene per una sfilata ma non ha credibilità di strada».

E Ghali rispose: «Quando penso a chi mi attacca mi vengono in mente quelle tribù dell’Amazzonia che vedono un drone volare e cominciano a scagliare le frecce in cielo». Dietro questo forte legame con la moda, col “conciarsi”, come dice lui, torna l’influenza materna: quando era piccolo vestirlo bene era un modo per propiziare l’integrazione, allontanando lo spettro dell’extracomunitario sregolato da rifiutare.

Un bambino

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La vocazione creativa di Ghali non si è mai limitata solo al rap, solo alla musica. È un autore, ma è anche l’art director di sé stesso, e nel tempo ha messo a frutto quest’inclinazione più internazionale che nostrana.

C’è in tutto quello che fa una dimensione ludica, sognante e forse uno dei suoi segreti è quello di essere rimasto fedele all’infanzia, ai suoi personaggi, alle sue storie, ai suoi giochi. Le sue canzoni sono piene di Pokémon, Dragon Ball e altri esseri fantastici, l’amico immaginario di quando era piccolo – di nome Jimmy – è una presenza che i fan conoscono bene, anche attraverso il caratteristico gesto delle mani con cui viene evocato ai concerti, sotto forma di proiezioni e ombre cinesi.

Lo stesso alieno di Casa mia, l’ormai viralissimo Rich Olino – ha un profilo tutto suo su Instagram, che nel giro di un mese ha già superato i 300mila follower –, arriva dalla stessa libertà di chi non ha paura di mostrarsi meravigliato dell’invisibile.

Ghali sembra avere molto rispetto del bambino che è stato, un’istintiva protezione verso l’eredità dell’infanzia. Nel mezzo dei dolori di un tempo, delle sirene che hanno strappato lui e sua madre dal sonno, degli sfratti, dei colloqui in carcere e della vergogna, quell’italo-tunisino senza fortuna è riuscito a mettersi a sognare.

E i suoi sogni li ha presi sul serio, restando più interessato a quelli, si direbbe, che a molte regole del gioco degli adulti. È diventato un uomo diverso dagli uomini che aveva intorno: a differenza di molti colleghi, non ha subito il fascino del gangster, del bandito, del boss, forse perché ha sperimentato presto, e in modo violento, il prezzo che certi ambienti fanno pagare a chi li frequenta. Ghali ha scelto di cercarsi altri modelli, altri eroi a cui ispirarsi.

Come dicevamo: ha scelto di alzare il livello. Ha cercato altri eroi, e li ha trovati in Eminem, Michael Jackson, Stromae, ma anche nel cinema e nei videogiochi, nelle storie inventate e quindi alternative rispetto al degrado che lo circondava.

Contro le aspettative

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Parlare di Ghali significa anche parlare della possibilità che sempre la vita ha di contraddire sé stessa, di essere inverosimile, inaudita, e andare contro tutte le aspettative in campo. Perché, che quel bambino di seconda generazione, senza padre e senza una casa, più volte rimasto invischiato nella guerra tra bande rivali, e finito nel carcere minorile Beccaria, a un certo punto prendesse a brillare nel modo in cui vediamo tutti, a inventarsi una vita così lontana dalle sue premesse striminzite e desolanti, è quantomeno sorprendente.

Ha qualcosa di magico, e proprio alla magia, al ribaltamento della natura mediante fascino, è possibile che ricorra Ghali, non mettendosi “contro” i paladini del suolo e del sangue, ma imbastendo per loro dei grandi numeri illusionistici, durante i quali non c’è scontro, non c’è neanche bisogno di combattere.

Perché le tirate d’odio, al cospetto di questo principe sbrilluccicante delle case popolari, amico degli alieni e della pace, che quando gli dicono “tornatene a casa tua”, risponde “sono già qua”, collassano all’istante su sé stesse, svanendo nel nulla e lasciandosi dietro solo una piccola, grigia scia di ridicolaggine.

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