In un numero dell’Economist di qualche mese fa, si tracciava la traiettoria che ha portato – e porterà – alla nascita dell’omnistar dell’intrattenimento a venire. Certo, ti pareva, c’entra l’intelligenza artificiale ma come possibilità di poter moltiplicare le apparizioni in pubblico dell’idolo, dell’entità suprema, in una sorta di infinita varietà di presenze dal vivo contemporanee.

Dividendo anche i prezzi dei concerti stessi: in una prima classe – con la garanzia del soggetto in carne e ossa – e in una dignitosa seconda classe con lo stesso soggetto ma in forma di sofisticato ologramma (ma siamo solo all’inizio) molto efficiente e altrettanto emozionante, forse pure di più.

Lo show degli Abba trasparenti e sempregiovani che sta infiammando Londra da mesi e mesi ne è la riprova e fa capire le aperture commerciali infinite in caso di longevità esagerata della celebrity e naturalmente di un suo decesso, che è ormai un pozzo senza fondo di sfruttamenti di ogni tipo.

Tutto questo per dire che dall’Italia solo una superstar di stazza europea (e oltre) è già da tempo preparata a tutto questo: l’italiano di origini egiziane Mahmood.

Oltre il locale

Mentre gli altri colleghi e colleghe si dibattono dentro la torbida pozza del mercato locale (accapigliandosi e tirandosi i capelli o tentando provinciali spacconate o presidiando militarmente pur forti mercati dialettali) ce n’è uno – lui, Alessandro Mahmoud – che da tempo è entrato dentro un prisma iridescente che vive in stretta relazione con l’hyperpop mondiale in maniera diretta, naturale.

Certo, aver mancato quasi all’esordio il gol a porta vuota di fare una versione in sola lingua araba della micidiale Soldi, dopo un Eurofestival a Tel Aviv, ha creato un rallentamento inaccettabile alla sua presenza globale, che sarebbe stata immediata. Erroracci di una discografia troppo localistica e cieca per automatismi dementi (pochi ricavi sicuri dalle società di gestione dei diritti d’autore da molti dei paesi nordafricani, ecc, tutte cazzate di fronte alla pervasività delle comunità arabofone sparse in tutto il mondo).

Ormai è andata e forse era pure troppo presto. In questo spazio di tempo, Mahmood – che è stata comunque negli anni personalità apparentemente delicata, che necessitava di protezione per la sua coraggiosa timidezza, e la cui sessualità andava ancora formata, nutrita, scolpita e resa definitivamente consapevole di sé – è ora pronto.

Nei letti degli altri

E imbrocca con Nei letti degli altri un episodio eccezionale del suo percorso e uno degli album più importanti della musica italiana degli ultimi vent’anni. Siamo in mondo translucido, una sorta di poliedro di nuova generazione che – ruotando con grazia e generando lievi allucinazioni – fa intravedere un’entità (appunto) nella quale biologia e duplicazione digitale sono sovrapposte e indistinguibili.

In tal senso il lavoro estetico che l’accompagna è chiarissimo: il Mahmood androide con tanto di chip inserito nella tempia (tenera citazione agli Ottanta così come il tributo ad un certo linguaggio di quegli anni, firmata Frederik Heyman) si sovrappone alla coreografia fatta di “maglia bianca/oro sui denti/jeans” dell’irreale credibilità di strada di Tuta Gold.

Torsioni

ANSA

Ma la stessa cosa accade nelle apparizioni pubbliche, dove l’amicizia genialmente costruita con lui da Miuccia Prada (che conferma la sua attenzione alle eccellenze mondiali) si sovrappone alla predilezione nell’ultimo anno per l’iperbole sulla figura maschile di un Rick Owens, e Mahmood è certo uno dei pochi corpi maschili di star in grado di portare con naturalezza il futuro costantemente pre-visto dal gigante stilista americano.

Nei visual che girano sul social i Mahmood si moltiplicano, si baciano tra loro, mostrano il corpo eccitato inabissandosi in livelli di gioco vuoti con torsioni di camera. Già, forse è proprio la “torsione” a caratterizzare la sensibilità che sta al centro di Nei letti degli altri, come fosse l’ormai secolare doppia elica della rappresentazione classica del Dna.

Qui i geni nordafricani non sono mai stati abbandonati. Sono dentro le parole e nella costante emersione di ricordi infantili, sempre che mai Mahmood abbia conquistato un’adultità che non sarebbe in fondo una buona idea (perché l’infantilismo sentimentale è forse la parte più importante della sua unicità, addirittura in uno dei testi compare uno “zaino dei Pokémon” oltre a frammenti di lavoro sul lettino dell’analista).

Li ritroviamo nella modulazione straordinaria e completamente arab-pop - ma anche direttamente afro-pop - della sua voce semplicemente stellare. Li ritroviamo anche nei riferimenti sparsi alla cultura del padre che lo ha abbandonato a cinque anni (centro di uno dei pezzi più belli dell’album, Stella cadente), al Corano fino alla decorazione “Nefertiti” sui denti, eccetera eccetera.

Ma tutto si forma all’interno appunto nel prisma luccicante della sentimentalità e della crescita della propria identità che si scalpella nel quotidiano contemporaneamente al successo e al piovere del denaro che va subito in fumo (come la prima casa finalmente comprata a 30 anni e carbonizzata in un incendio incredibile dell’intero palazzo) e ti porta in casa gente che non conosci.

Virtuale e chimica

EPA

Si raccontano amori che oscillano tra fusionalità incantata di fronte al mondo naturale – ma disegnato da Midjourney e Sora – e insieme crescono dentro fibre direttamente digitali (Grdnr, OnlyFans, una certa sessualità quotidiana milanese anni Duemila). O ricordi chimici o tagliati da “neve” che cade sulle sneaker o moltiplica le possibilità erotiche o le malinconie improvvise dentro clubbing, giri urbani o nel “quartiere” o strane destinazioni per gite comprate a caso su “eDreams/volagratis” (Budapest, Manchester, ma anche un traghetto da Genova diretto alla Sardegna d’origine o al Nord Africa).

"Singolarità’’ bizzarra quella di Mahmood, che non ha letto Jean Baudrillard – e ha fatto bene – ma certo del “sembiante” e del “simulacro” fa tesoro nel costruire una drammaturgia delle emozioni nella quale sincerità e iperbole e sentimentalismo alterato sono meravigliosamente una cosa sola, come in una fantastica orchidea modificata dal profumo di erba sintetizzata in polvere luccicante, una cosa del genere ecco.

ANSA

A tutto questo si aggiunge una produzione perfetta, impeccabile per contemporaneità, essenzialmente fatta in casa dal fidatissimo Francesco Fugazza con insert giusti, da Dardust a Drust/Golden Years, fino a BGRZ e Madfingerz. Spuntano pochi “feat” ben spesi: vedi il brasiliano, e membro del collettivo queer Chernobyl, Slim Soledad che apre le danze.

Lo stesso vale per le centellinate presenze locali: tre soli gatti di strada come l’irresistibile Chiello, il disangolato Tedua e il grande Capo Plaza (autore non a caso di una produzione mondiale come la sua Envidioso). Per facilità si potrebbe citare un ambiente sonoro complessivo alla Frank Ocean, ma è certo a tutto l’urban contemporaneo che ci si può riferire, compreso uso chic di strumenti reali in chitarra/basso/batteria qui e là. Poi, certo, sfumature più robuste di grime, baile funk e tocchi del repertorio planetario fanno il resto.

Inclusa la scelta accurata di pochissimi pezzi e basta, certo selezionati tra abbondanza di materiale. E, attenzione, molta italianità sintetizzata. Benvenuti nel mondo. Così com’è diventato dall’inizio di questo secolo. Qualcuno doveva incarnarlo, e meno male che è persino accaduto dentro un corpo tornito e degli occhi lucidi capaci di affrontare – con visione Pro – gli universi di ogni tipo e natura che si parano di fronte a noi: quelli di Alessandro Mahmood. E i risultati, anche top mondo Spotify, stanno finalmente fioccando. È una buona notizia, anzi eccellente.

© Riproduzione riservata