Dalla fine della guerra, la storia di Auschwitz è stata abbondantemente documentata. Eppure, la conoscenza comune resta limitata a pochi fatti essenziali (date, numeri, nomi) e la narrazione appare improntata a una visione parziale, non inclusiva di tutte le politiche criminali che i nazisti realizzarono in questo sito. In sintesi, per tutti Auschwitz è la Shoah e ogni prigioniero dietro il filo spinato era ebreo, destinato alla camera a gas.

Dal 1943 al 1944 lo sterminio costituì la funzione principale del sito (almeno il 90 per cento delle vittime furono ebrei). Ma la Shoah – il cui svolgimento non coincise, per la maggior parte, con la cronologia di Auschwitz – non rappresentò mai l’unico obiettivo dei nazisti. L’istituzione stessa del campo, nel 1940, non fu motivata dalla logica di eliminare gli ebrei, ma dal contesto di brutale repressione della Polonia.

Anche quando Auschwitz iniziò ad assumere un ruolo centrale nella Soluzione finale, il sito mantenne la sua funzione di campo di concentramento e di lavoro forzato, internando prigionieri che non erano solo ebrei. 

Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione). Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.

Tra storia e microstoria

Capodistria (Koper) 1945. Jolanda Marchesich mostra il suo numero di matricola di Auschwitz tatuato sul braccio. Courtesy ANED Trieste

Su questo riflettevo qualche anno fa, quando ho intrapreso il progetto di un libro sugli italiani deportati ad Auschwitz. L’intenzione era di narrare le vicende umane della Shoah italiana a un ampio pubblico di lettori, dando spazio alle memorie dei superstiti e adottando un approccio integrato tra storia e microstoria, per far emergere le relazioni tra i diversi ambiti di azione che avevano reso possibile quella tragedia.

All’epoca non conoscevo la storia di italiani non ebrei finiti ad Auschwitz, salvo quella di tre donne, arrestate in luoghi e circostanze diverse: Vittoria (Vivà) Nenni, figlia del leader socialista Pietro Nenni e deportata come resistente dalla Francia, la triestina Ondina Peteani, catturata come giovane staffetta partigiana, e Ines Figini, operaia della Tintoria Comense, arrestata perché aveva scioperato.

L’intuizione di approfondire queste vicende per collocarle nel racconto della deportazione italiana ad Auschwitz mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo, grazie a una lunga ricerca negli archivi europei. Il libro ha, quindi, imboccato un’altra strada, più complessa e ambiziosa, volta a riscrivere una storia che fino ad allora era stata raccontata solo attraverso la lettura della Shoah. Dalle carte degli archivi sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).

Le biografie di Ondina e di Ines sono state la chiave per conoscere altre storie di giovani italiane, almeno un migliaio, quasi tutte arrestate nel 1944 nelle province di Udine, Gorizia, Trieste, Fiume, Pola e Lubiana, incorporate nel Reich dopo l’8 settembre.

Territorio sottoposto a una durissima repressione nazista, il litorale adriatico fu oggetto di vaste azioni di arresto e di rastrellamento di civili, volte a stroncare la Resistenza e raccogliere manodopera per le industrie belliche tedesche.

Maria Rudolf, 18 anni di Gorizia, o Adriana Bruschi, 16 anni di Fiume, sono due esempi tra centinaia di giovanissime italiane coinvolte nell’azione partigiana. Altre, invece, vennero arrestate perché sospettate di fiancheggiare le bande partigiane.

Alla cattura, spesso su delazione dei fascisti locali, seguì talvolta la tortura fisica, persino lo stupro. Aurelia Gregori, slovena di 23 anni, partorirà ad Auschwitz la sua bimba, frutto di violenza, pochi giorni prima dell’arrivo dell’Armata rossa.

Molte delle politiche italiane deportate da Gorizia e Trieste erano slovene e croate, nate in località annesse all’Italia dove il fascismo aveva pesantemente discriminato queste minoranze, imponendo un’italianizzazione forzata. Negli anni tra le due guerre, si era diffuso nelle popolazioni locali un sentimento sempre più forte di opposizione, esacerbato poi dall’occupazione nazista. Da Bergamo furono deportate circa quaranta operaie scioperanti delle fabbriche lombarde: una misura punitiva, unita a ragioni di sfruttamento economico. Resta da chiedersi, perché solo loro finirono ad Auschwitz, tra molte altre scioperanti.

Dimensione polivalente

È complicato interpretare per tutte queste italiane la motivazione che ne determinò la deportazione ad Auschwitz. Nel 1944, oltre che centro di sterminio per gli ebrei, Auschwitz era un gigantesco complesso di campi adibiti al lavoro forzato, non solo industriale. Eppure, le testimonianze delle italiane superstiti convergono su un punto: quasi nessuna dovette svolgere un lavoro a scopo produttivo o in fabbrica. Peraltro, tante vi rimasero internate solo per il periodo di quarantena, a ricordare che Auschwitz funzionava anche come campo di smistamento di prigionieri. Fu solo dopo il trasferimento in altri lager che le italiane iniziarono a essere impiegate per la produzione bellica.

Quanto ai più di duecento uomini internati come triangoli rossi, nessuno risulta arrivato direttamente dall’Italia, ma trasferito con specifici trasporti di prigionieri, scelti per categoria (malati e inabili al lavoro per Majdanek) o per professione (lavoratori specializzati e medici da Mauthausen e Dachau).

Gli uomini giunsero ad Auschwitz in condizioni ben peggiori delle connazionali. Già sfiniti dal duro lavoro in diversi campi, spesso sei o sette lager diversi, come per il piemontese Pio Bigo, in molti non fecero ritorno a casa. Generalmente i medici, uomini e donne, che ad Auschwitz furono scelti per la loro professione, come Luciana Nissim, amica di Primo Levi, o il maggiore dell’esercito Giuseppe Filippini, poterono contare su migliori condizioni di sopravvivenza. Per ognuno il trauma rimase indelebile, anche per l’impossibilità di curare i prigionieri ammalati.

Solo ricollocando al centro del quadro la dimensione polivalente di Auschwitz nel 1944, quando vi arrivò la quasi totalità degli italiani, è possibile attribuire un senso alle tante e diverse storie, in particolare quelle delle donne non ebree.

Il lavoro forzato, inteso però in senso ampio, come sfruttamento del corpo degli internati a servizio delle mansioni più disparate (tra le quali svuotare le latrine, trasportare i cadaveri, livellare continuamente un terreno paludoso e ghiacciato), rimase una funzione importante nella storia del complesso di Auschwitz, mai però prevalente, anche durante gli anni dello sterminio e al termine delle operazioni di uccisione col gas, nell’autunno 1944.

È il 2 dicembre 1944 quando, a pochi giorni dalla grande evacuazione, arriva da Mauthausen un trasporto numeroso di lavoratori specializzati, come fabbri, falegnami, elettricisti, ma anche cuochi: tra loro, 165 prigionieri registrati come italiani. Non è un trasferimento casuale, ma giustificato dall’indicazione delle diverse professioni che hanno motivato la scelta di quei prigionieri da inviare proprio ad Auschwitz, dove la pluralità dei campi e sotto-campi della sua amministrazione, richiedevano con urgenza molta manodopera. Allo stesso modo, le continue epidemie di tifo e malattie contagiose, richiedevano la presenza di medici anche per curare le SS e le loro famiglie. Gli ultimi cinque medici prigionieri italiani, internati come triangoli rossi a Dachau e a Mauthausen, giungono ad Auschwitz il 22 novembre 1944 e il 3 gennaio 1945.

La storia degli italiani ad Auschwitz è un mosaico difficile da comporre, perché mancano alcuni tasselli. Le fonti sono frammentarie e le testimonianze dei superstiti non ebrei poco numerose, rilasciate in età molto anziana, oppure raccolte in sloveno e croato e non tradotte.

Raccontare i diversi aspetti di una tragedia, ricordando tutte le vittime, non serve solo a raccogliere le memorie e a riscrivere il racconto storico. È anche un atto di giustizia per tutti coloro che per tanto tempo sono stati ingiustamente dimenticati.


Laura Fontana è autrice del libro Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021

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