I detective selvaggi di Roberto Bolaño è un capolavoro della letteratura contemporanea, che delinea in modo magistrale molteplici accadimenti caratterizzanti le esistenze di un nutrito gruppo di intellettuali e militanti latinoamericani, dagli anni Settanta alla fine del Novecento. Spesso ci è capitato di chiederci se avremmo mai potuto leggere un equivalente italiano dell’opera di Bolaño. Al di là delle differenze di contesto, la risposta è rappresentata dall’ultimo libro di Raffaella Battaglini, Mentre passiamo bruciando, edito da Castelvecchi.

Battaglini riproduce in modo molto efficace lo stesso impianto narrativo polifonico ideato da Bolaño per i suoi detective e lo volge a far rivivere il contesto della Padova degli anni Settanta. Protagonista del libro è Antonietta P., che, in pieni anni Duemila, vorrebbe laurearsi con una tesi su “Teorie e pratiche rivoluzionarie in Italia nella seconda metà degli anni Settanta”, ma si trova a ricostruire la dinamica di un brutale omicidio avvenuto nel 1981 (l’unico evento immaginario del libro) a danno di una inafferrabile donna appartenente a due galassie solo apparentemente inconciliabili: la Padova “bene” e “il movimento”. Attraverso le interviste di Antonietta, riviviamo le tempeste e le speranze di quell’epoca e incontriamo il radicalismo politico, la violenza, la repressione, la partecipazione diffusa, il femminismo, il perdurante maschilismo (anche nel movimento), la diffusione delle droghe, la democratizzazione della cultura, attraverso librerie, concerti e teatri sperimentali.

Le voci sono quasi tutte interne al movimento e sono dominate da un senso di sconfitta, coincidente con il crollo delle speranze rivoluzionarie alla fine degli anni Settanta, che, in particolare per la sinistra extraparlamentare padovana, si sovrappone alle conseguenze del processo “7 aprile”: «No, non abbiamo sentito avvicinarsi la sconfitta. Ci è arrivata alle spalle a tradimento, mentre ci credevamo ancora favoriti dagli dèi. Non abbiamo sentito il rumore dei suoi passi. Ci ha pugnalato alla schiena in un’alba di aprile, mentre dormivamo ignari nei nostri letti» (p. 176). Ma, al contempo: «A dire il vero però, io sono dell’avviso che in qualche modo la rivoluzione noi l’abbiamo agita, capisci? Abbiamo agito la rivoluzione nelle nostre vite, nelle nostre relazioni, nel nostro rapporto con il mondo, e questo in fin dei conti è l’essenziale, io ritengo… Oppure no?» (p. 81).

Oltre il piombo

Viene in mente, a questo proposito, un altro romanzo recente ambientato nella Padova degli anni Settanta, Non c’è stata nessuna battaglia (Marsilio, 2019) di Romolo Bugaro. Entrambi questi libri rifiutano la metafora logora degli “anni di piombo”. L’espressione compare una volta sola nel libro di Bugaro, mai in quello di Battaglini. Bugaro sottolinea principalmente quei cambiamenti negli stili di vita e di consumo dei giovanissimi che affioreranno appieno negli anni Ottanta. Rispetto a quelli ritratti da Battaglini, i giovani di Bugaro attraversano altre “battaglie”, soprattutto private, e soltanto lambiscono quei luoghi e quegli eventi che hanno caratterizzato la storia padovana e italiana degli anni Settanta. Considerando il caleidoscopio delle memorie proposto da Battaglini e l’edonismo dei personaggi di Bugaro siamo indotti a chiederci se l’eredità più cospicua di quegli anni si possa rintracciare nell’evoluzione degli stili di vita individuali. O qualcosa rimane anche nelle mobilitazioni collettive? E se qualcosa rimane nella sfera pubblica, come interpretarlo?

Le eredità

La letteratura aiuta a formulare domande che sono cruciali anche per la storiografia e le scienze sociali che si sono a lungo interrogate sui fatti e le interpretazioni relative agli anni Sessanta e Settanta. In un breve ma ricchissimo testo (Anni Settanta, Einaudi, 2007), Giovanni Moro si chiedeva se il Sessantotto fosse da ricordare come un “Grande fratello”, di quanto di peggio gli anni Settanta hanno prodotto (in termini di violenza politica), oppure se potesse essere considerato un “fratello grande”, da cui discendono processi eterogenei che hanno ampliato nel tempo gli spazi di cittadinanza e partecipazione. Riprendendo tale riflessione, proviamo a interrogarci anche noi sulla eredità politica dei movimenti di cinquant’anni fa. Quattro sono, a nostro avviso, le caratteristiche più rilevanti di quell’ondata di mobilitazione: a) il protagonismo giovanile; b) la dimensione globale del fenomeno; c) il ruolo dei mass-media nella diffusione delle immagini e ragioni della protesta; d) la nuova sensibilità verso i diritti, l’ecologia, i rapporti fra i generi e la cittadinanza.

In primo luogo, il protagonismo dei movimenti giovanili non è evento raro nella modernità occidentale: basti pensare all’impatto storico dei moti del 1848. Tuttavia, già alla fine degli anni Sessanta il movimento conosce un’estensione mondiale che si articola anche quale innovazione culturale. È sufficiente richiamare alla memoria l’avvio di un nuovo modo di diffondere cultura popolare e protesta politica (come l’intreccio tra Woodstock e il movimento antimilitarista favorevole al ritiro degli Stati Uniti dal Vietnam) per sottolineare il nesso tra nuove forme di fruizione culturale e inedite forme di partecipazione politica.

In secondo luogo, i mass-media sono in grado per la prima volta di veicolare immagini e notizie in tempo reale in tutto il mondo. Prima ancora che ai temi sollevati dal movimento, il ’68 è legato alle immagini di festa e di protesta che raffigurano giovani simbolicamente (ma non solo) in procinto di “rompere le catene” del conformismo e del paternalismo autoritario. Le immagini stimolano un senso di comunanza che altrimenti difficilmente si sarebbe potuto realizzare in quel modo.

È anche grazie alla costruzione di un nuovo immaginario che la mobilitazione si diffonde su scala mondiale in tempi estremamente rapidi, anche se con finalità e modi molto diversi. A differenza dei moti del 1848, questa ondata di mobilitazione non si limita al solo Occidente: il principale bersaglio è l’autorità costituita, mentre ad essere valorizzati sono i momenti di condivisione e di ampliamento della partecipazione, sia in contesti democratici, sia in contesti non democratici. Nei paesi dell’Europa orientale la mobilitazione si traduce in rivolta contro le dittature comuniste a partito unico e contro l’imperialismo sovietico.

Proprio in quei mesi, in tempo reale, un grande politologo quale Stein Rokkan ha sostenuto che il diffondersi dei movimenti del ‘68 costituisce uno spartiacque nella storia della politica di massa democratica e nella storia internazionale della sociologia politica. Non si è trattato di una fiammata effimera: nella lettura di uno studioso di ispirazione rokkaniana, Percy Allum, il ‘68 e la contestazione originerebbero da una specifica giuntura critica, la quale provocherebbe «una nuova frattura sulla questione ecologica, di cui sarebbero protagonisti i nuovi movimenti sociali (originando una contrapposizione) ambiente contro sviluppo industriale».

Possiamo concordare con tale interpretazione? È vero che i pochi partiti non effimeri scaturiti dalle mobilitazioni post Sessantotto sono le neoformazioni ambientaliste. Tuttavia, i movimenti hanno un impatto più vasto e cambiano le culture politiche già presenti nella società. Secondo Ronald Inglehart (La rivoluzione silenziosa, Rizzoli, 1983) dagli anni Sessanta sarebbe in corso una “rivoluzione silenziosa” nelle culture politiche occidentali, in seguito all’irruzione sulla pubblica ribalta di una generazione “post-materialista” concentrata sullo stile di vita individuale.

Molte delle questioni riguardo al genere, la sessualità, gli stili di vita alternativi, poste dai movimenti sorti in quel periodo sono penetrate gradualmente nei programmi dei principali partiti della sinistra, provocando – secondo alcuni studiosi, fra cui Piero Ignazi – cambiamenti tali da generare per reazione la nascita di una nuova destra, più radicale e tradizionalista. Tuttavia, riguardo al nostro paese, la lettura “post-materialista” andrebbe quanto meno relativizzata. In Italia le mobilitazioni del 1968 si sono saldate con quelle del 1969, ossia con un ciclo molto intenso di mobilitazione operaia. Proprio il 1969 può essere considerato un anno simbolo dell’ambivalenza di quei tempi. Nel 1969 si ottengono importanti riforme in ambito pensionistico e di accesso all’Università, grazie alle iniziative di deputati socialisti come Giacomo Brodolini e Tristano Codignola (e nel 1970 si approva lo Statuto dei Lavoratori, pilastro fondante di inediti diritti per le lavoratrici e i lavoratori). Al contempo, il 12 dicembre di quell’anno una bomba esplode nella sede della Banca nazionale dell’agricoltura di Piazza Fontana a Milano, uccidendo 17 persone e ferendone altre 90.

I cambiamenti che restano

Se gli anni Sessanta lasciano in eredità al decennio successivo una pluriforme effervescenza sociale, l’ombra delle stragi accompagnerà a lungo la nostra storia. Per questo motivo la definizione “anni di piombo” non ci pare adeguata ad esprimere tutta la complessità e anche la ricchezza del decennio abbondante che va dal 1968 al 1979. Perché, a differenza di altri paesi, l’Italia ha subìto anche il fenomeno dello stragismo, con il corollario di depistaggi e opacità che lo contraddistinguerà per molti anni. Eppure, nonostante il piombo e il tritolo, l’Italia ha conosciuto una stagione intensa di cambiamenti, anche contraddittori, che deve essere ricostruita e considerata con attenzione. Nel libro di Moro c’è un lungo elenco di riforme, varate nei più diversi campi nel periodo fra il 1969 e il 1979, per via legislativa o giurisdizionale, che hanno contribuito a cambiare la struttura della società italiana. L’elenco di tali riforme, e delle mobilitazioni che le hanno accompagnate, rende del tutto comprensibile l’invito a distinguere le diverse eredità del Sessantotto proposto dallo stesso Moro. Esse non riguardano soltanto le delusioni legate alla sconfitta di ipotesi rivoluzionarie caldeggiate da alcuni gruppi, ma molteplici fermenti innovativi nel mondo delle professioni, della scuola e dell’Università. Tracce di quel periodo possono essere ritrovate nella mobilitazione delle donne, nelle manifestazioni per la cura dei contesti territoriali aggrediti da scelte ambientali miopi, nelle organizzazioni di cittadini che si battono per diritti misconosciuti o per la tutela di beni pubblici minacciati. Sono fenomeni di lungo periodo sui quali i buoni libri come Mentre passiamo bruciando ci inducono a riflettere ancora.

© Riproduzione riservata