«Appena mi presentai, tutti si alzarono in silenzio. Nella sala si respirava un’aria di grande attesa… Scorsi centinaia di volti, ero sconvolto. Era come se davanti a me ci fosse l’umanità intera».

Siamo a Reykjavik, in Islanda, nel 1986. Michail Gorbačëv, da un anno segretario del Comitato centrale del Pcus, ha persuaso Ronald Reagan a riprendere il negoziato lanciato l’anno prima, a Ginevra, per il disarmo nucleare bilaterale. Ho ricordato su questo giornale (28 aprile) che quella politica estera, che mise al mondo un mondo nuovo, doveva essere l’aspetto “esterno” della perestroika. Vorrei tornare su quel nesso essenziale fra democratizzazione interna e realizzazione di un nuovo ordine internazionale, a partire dalla “casa comune europea”, che il grande riformatore sconfitto aveva in mente.

Anzi, allargare ancora l’orizzonte di quel pensiero, alzarlo, senza pudore, verso il cielo delle idee. La perestroika voleva essere prima di tutto una “rivoluzione democratica delle menti”. Ecco: questa non è certamente fallita solo in Russia. Lo vediamo con più chiarezza, oggi che le nostre menti stanno scivolando in giù, verso la loro radice più arcaica, e scendendo un gradino nella scala evolutiva dell’umano rizzano il pelo e scoprono i denti, pronti a una guerra di sterminio delle opinioni altrui che nulla ha a che fare con il civile confronto di ragioni di cui le democrazie dovrebbero vivere: e peggio se fra i denti stringono bandiere, se gridano i nomi di dio – il giusto, il buono, il bello – e così ne fanno, come diceva Simone Weil, «parole assassine».

Le guerre, che nelle menti degli uomini nascono (Art. 1 della Carta dell’Unesco), hanno sui cuori e le menti questo effetto retroattivo e regressivo, di passare il comando ai pensieri veloci, o ai circuiti emotivi e reattivi più estranei a quell’attenzione del cuore e a quella rassegna mentale dei possibili che definiscono propriamente questo dono di ragione e grazia, l’umano.

La tragedia del presente

Gorbačëv non deve averla sentita solo quella volta, davanti a sé, l’umanità in attesa, durante i suoi brevi anni al potere, dal 1985 al 1991. Che cosa acceca le nostre menti anche in tempo di pace, al punto che non vediamo quasi mai né la grandezza né la tragedia del presente, finché è presente? Allora ben pochi, fra i leader e gli intellettuali “occidentali”, si erano resi conto della grandezza della chance che la trasformazione in corso nell’Urss poteva aprire all’avvenire del mondo.

O anche solo di quanto grande fosse l’attesa dell’“umanità intera”. Che, in noi e fuori di noi, è muta: finché parole e azioni di singoli individui, gli edificatori e i distruttori, la definiscono – o la sfigurano. La nostra umanità è ancora definita dai grandi documenti normativi postbellici, a partire dalla Dichiarazione universale dei diritti umani. Ma ci furono anni, nel secolo scorso, che oggi colpiscono per l’altezza degli ideali cui l’umanità pareva essersi impegnata, coi suoi accordi di pace.

La Dichiarazione di Dehli, ad esempio, firmata da Rajiv Gandhi e Gorbačëv nel 1986, enumera alcuni principi per la costruzione del nuovo ordine mondiale, che a rileggerli ora fanno un certo effetto. La vita umana deve essere riconosciuta come il valore supremo. La non-violenza deve divenire la base della coesistenza umana. All’“equilibrio del terrore” si deve sostituire un sistema planetario di sicurezza internazionale. Ma colpisce, soprattutto, l’ampiezza e intima coesione del «nuovo pensiero», che Gorbačëv più che a sé stesso attribuisce alla «comunità mondiale», con l’«idea universale della supremazia dell’umanità, per contrastare le innumerevoli forze centrifughe (i nazionalismi, ndr), per preservare la vita di una civiltà che, forse, è l’unica possibile nell’universo».

L’orizzonte ecologico, con il Manifesto per la terra, chiude il cerchio di questa “filosofia del mondo”, rara nei leader anche più grandi – come scrisse il New York Times dopo il discorso del 7 novembre 1988 all’Assemblea generale dell’Onu. Ma i precedenti di Wilson, Roosevelt e Churchill impallidiscono di fronte all’ampiezza di questo respiro. Si può intendere anche in questo senso il detto poetico sulla Russia che “confina con Dio”: un senso assai più tolstoiano che dostoevskiano, un grande universalismo non-violento e illuminato, che nulla ha di mistico e slavofilo, o addirittura di fumisterie imperiali eurasiatiche, alla Dugin (il cosiddetto filosofo di Putin).

L’ampiezza dell’orizzonte etico-politico può non essere affatto in contrasto con la concretezza dei propositi. C’è un libro che raccoglie come in un coro tragico e grottesco, supremamente gogoliano, le voci dell’intelligencija contemporanee alla caduta di Gorbačëv (Russia: l’ultimo inganno, di Milli Martinelli, La nave di Teseo 2018, ripubblicato con la prefazione di Moni Ovadia).

L’autrice, studiosa e traduttrice che soggiornava regolarmente nella casa degli scrittori a Peredelkino, racconta anche di Andrej Sacharov, «la più limpida di quelle voci»: il grande fisico, che dagli anni Settanta si era dedicato alla battaglia per i diritti umani e la democrazia ed era per questo stato confinato a Gorkij (Nižnij Novgorod), morì nel 1989, giusto prima di aver ultimato la stesura della Costituzione per la nuova Unione delle repubbliche sovietiche indipendenti, la più grande riforma alla quale Gorby stava lavorando. Il quinto articolo conferisce alla Carta dell’Onu e alla Dichiarazione dei diritti umani «la priorità assoluta sulle leggi dell’Unione e delle singole repubbliche».

Parole, si dirà. Il fatto è però che furono persone in carne ed ossa, Eltsin in quanto presidente della Federazione Russa, e i presidenti delle repubbliche indipendenti di Ucraina, Kravčuk, e di Bielorussia, Šuškevič, a proclamare l’8 dicembre del 1991 la dissoluzione di fatto dell’Unione sovietica: dichiarazione che fu firmata, non a Mosca dove il 25 novembre tutte le rappresentanze delle repubbliche sovietiche avevano sottoscritto la bozza del nuovo Trattato di unione democratica e federale, ma in seguito a trattative segrete nella foresta di Belovez ai confini con la Polonia, e inviata, curiosamente, in primo luogo a George Bush.

L’infanzia della democrazia

Sergio Romano, nella sua raccolta di saggi Il suicidio dell’Urss (Teti) dice di essere convinto che non si poteva agire diversamente. Non uno straccio di argomento autorizza però questo determinismo a posteriori, che libera oltretutto dalle loro responsabilità epocali gli uomini che allora decisero non soltanto il futuro del mondo, ma anche la portata delle attese che l’umanità avrebbe potuto permettersi, prima che il caos, gli oligarchi e le mafie aprissero la via al regime di Putin.

Proprio su queste attese vogliamo concludere. «La democrazia è ancora nella sua infanzia» – scrisse Tomáš Masaryk, il fondatore e primo presidente della Cecoslovacchia dopo la dissoluzione dell’Impero Asburgico. Nella sua infanzia è ancora oggi – e per questo resta tanto fragile nelle nostre menti da consentirci di parlare, con la lingua arcaica della geopolitica, delle vocazioni imperiali dei “popoli”, o della tendenza naturale degli stati a espandersi, assoggettare, dominare.

La verità è però che una democrazia non è soltanto una forma di governo politico, ma una civiltà fondata in ragione, cioè sull’esperienza morale di ognuno, che non ha affatto confini nazionali, ma ha ormai istituzioni sovranazionali che hanno molto potere. Masaryk fu ispiratore e maestro del suo conterraneo Edmund Husserl, il filosofo dell’idea di Europa, questa patria che ha radici di carta e pensiero (lento, lentissimo), e per questo può e deve rinunciare a quelle di sangue e suolo, oltre che ai circuiti primitivi dell’amigdala.

Dov’è, ora, l’Europa? Forse si sta svegliando. Scrisse Dmitrij Furman che Gorbačëv, che con la sua iniezione di moralità nella politica ha provocato il collasso di un sistema amorale, non ha avuto eredi, non essendoci più stato un governante che introducesse nella politica la morale comune. Forse sbaglia.

A Roma qualcuno continua a pregare che la si introduca, e chiede a Putin di riceverlo per parlare anche di questo, e di mestiere fa il papa. A Bruxelles il presidente del Consiglio italiano ha detto che l’Italia «è pronta a impegnarsi in prima linea per raggiungere una soluzione diplomatica»: lo è come paese fondatore dell’Unione europea, e quindi ha sottolineato i passi necessari perché l’Unione acquisti l’autorevolezza politica di una Federazione, a costo di modificare qualche regola: quella dell’unanimità per esempio, o l’iniquo trattato di Dublino, o la politica di accoglienza dei migranti, di tutti i migranti. A proposito di attese dell’umanità.

Forse si apre uno spiraglio? Giusto per mettere un interrogativo, almeno, alla sentenza lapidaria emessa da Dmitri Muratov, direttore della Novaja Gazeta e premio Nobel per la pace, uno dei pochi intellettuali europei che il presente e la sua tragedia la vedono, perché la soffrono: «Il futuro è morto».

 

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