Giuliano Montaldo era un uomo bellissimo. Lo dico non solo per amor di verità, ma anche perché so che gli farebbe piacere un’annotazione che in momenti come questi passa legittimamente in cavalleria.

Ricordo una chiacchierata fluviale a proposito di Achtung! Banditi! , il film di Carlo Lizzani del suo debutto nel cinema, da giovane attore di belle speranze e di già chiari principi. Quel film del 1951 era un cult che la mia famiglia mi aveva instillato, e i suoi racconti sui non-attori reclutati per interpretare i partigiani per me erano un viaggio-premio nella leggenda.

Ma a questo grande amico di tanti di noi, così generoso di un’ironia gentile e senza mai ombra di acredine, premeva soprattutto farmi ammettere che sì, i suoi chiari occhi azzurri in quel film erano proprio incredibili, anche se, precisava, come attore era un cane.

Scelte politiche

LaPresse

È stato bello fino all’ultimo giorno, con quell’eleganza da gentleman vecchio stampo, una coppia da dagherrotipo con sua moglie Vera. Non è da tutti morire con eleganza, a 93 anni, dopo aver conseguito un tardivo, imprevedibile successo non da regista ma da attore. È accaduto nel 2017, con l’incantevole smemoratezza del suo scrittore in Tutto quello che vuoi di Francesco Bruni.

Il vero tracollo è arrivato in realtà con la scomparsa di Vera, che di cognome faceva Pescarolo. Una gran donna dietro un grande uomo: figlia di Vera Vergani, diva del muto, nipote di Orio Vergani, sorella di Leo Pescarolo, produttrice e combattente. Era stata tra le prime scandalose divorziate d’Italia. Nel 2021 Montaldo ha scritto per lei, pubblicato da la Nave di Teseo, un libro su un sessantennio di simbiosi che non usurpava il suo titolo, Una grande storia d’amore.

Con Leo Pescarolo produttore, Montaldo ottenne nel 1961 il suo biglietto d’ingresso al cinema dal lato giusto della cinepresa. Tiro al piccione, la sua prima regia, segna una tappa storica: è anche l’occasione del colpo di fulmine, «un colpo al cuore», diceva lui a distanza di anni. È molto più che passione, è un sodalizio artistico che sforna in successione Sacco e Vanzetti nel 1971, Giordano Bruno nel 1973, e poi L’ Agnese va a morire, Marco Polo per la Rai, Gli occhiali d’oro, I Demoni di San Pietroburgo.

È una storia di scelte politiche, quella di Giuliano Montaldo. Politiche, non ideologiche, solidamente antifasciste ma determinate ad arrivare al pubblico popolare. Aiuto-regista apprezzato, soprattutto dall’amico Gillo Pontecorvo, ha fatto i primi passi controvento e controcorrente, anche per la sinistra comunista in cui si riconosceva. La scelta coraggiosa per la sua prima regia del romanzo autobiografico di Giosa Rimanelli, che aveva aderito alla Rebubblica di Salò con gravi disillusioni personali, a Venezia aveva provocato astiose polemiche. 

Fuori dal seminato

Ascoltare da Montaldo gli aneddoti legati al film della sua consacrazione, Sacco e Vanzetti, con quei suoi due epici Gian Maria Volonté e Riccardo Cucciolla, era un autentico spasso. È quel tipo di film che oggi nessuno ha l’ardire e l’ambizione di fare. È una grande storia politica, ma fuori dal seminato nostrano. Sacco e Vanzetti erano anarchici, qui da noi senza cittadinanza partitica ma così universali da conquistare Ennio Morricone e la portavoce ufficiale dell’altra America, Joan Baez.

Non c’è concerto, ancora oggi, in cui non canti quell’inno, e non c’è lingua in cui non sia stato tradotto. Perché quel film, come il successivo Giordano Bruno, di nuovo con un Volonté derubato di ogni premio (a Cannes era stato premiato Cucciolla) non troneggia tra i classici del nostro cinema? Questa domanda Montaldo se la poneva e ce la poneva sovente, sempre con grazia zen. Con quel curriculum riusciva a calamitare star assolute come la Ingrid Thulin-Agnese, partigiana in bicicletta sulle strade blu padane, e come il Burt Lancaster, la Anne Bancroft, i F. Murray Abraham e i Denholm Elliot di contorno del primo kolossal da esportazione della Tv di Stato, il suo Marco Polo in otto puntate.

Erano due lettori voraci, Giuliano e Vera. Giorgio Bassani ha fornito loro Gli occhiali d’oro, Ennio Flaiano Il tempo di uccidere, Renata Viganò L’Agnese va a morire, le idee rivoluzionarie del giovane Dostoevskij I demoni di San Pietroburgo. Ma Montaldo era un regista accantonato dai produttori, l’incarico onorifico di presidente di Rai Cinema dal 1999 al 2004, svolto come un vero lavoro a tempo pieno, non ha colmato la dolorosa astinenza da set. Vale sempre la stessa, atroce regola della pietra tombale sui Maestri in vita. Anche Fellini ne sa qualcosa.

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