«Spero che quando arriverò tra le ombre non mi giudichi troppo male.»

«Testimonierò a tuo favore.»

La risposta di Astore è svogliata, Dante non è il suo forte (“giudica e manda secondo ch’avvinghia”), Minosse deve averlo guardato su Google. Sulla navetta per Orio al Serio c’è silenzio, i viaggiatori non sono molti e la maggior parte con le cuffie. Augusto annoiato si perde tra le gambe di un signore di mezza età, il mio grembo materno ha la forma di un bozzo fasciato dai jeans, su quello potrei addormentarmi. Pioppi soporiferi nelle loro falangi iterative, il ponte sull’Adda gli ricorda una vecchia amica, è dai tempi di Vincenzo che non viaggio in aereo – proprio Creta era uno dei progetti che Enzino aveva accarezzato nei minimi particolari dal suo palloso ufficio di impiegato all’anagrafe, ma poi fummo ammaliati dalle Mauritius.

Il cardiologo m’ha detto «basta che non vada in Congo o in Amazzonia, nei posti civilizzati senza problemi, si porti le medicine di base» – la pandemia si è sfilacciata, delusa anche lei. Astore respira la nebbia esterna che esala dai prati tra una fabbrica e l’altra: tempi di Gloria che solo attraverso i vetri si possono ricordare.

Nel ronron sonnolento il bip di un WhatsApp in arrivo: «Tiziano è stato respinto al controllo passaporti è a Milano m’ha chiesto se potresti avere voglia di vederlo ho risposto non penso», segue emoticon con gli occhiali scuri. Augusto non sa evitare un gemito e una smorfia amara delle labbra. Cancella il messaggio, anzi proprio il contatto, e mentre gira il cerchietto (“elaborazione in corso”) ragiona con freddezza: da ora il mondo non mi riserva più nulla. Hai preteso dalla vita più di quanto ti spettasse, ora basta; queste lacrime invisibili sono l’essudato di tutto quello che non hai saputo restituire.

«Brutte notizie?»

«Conferme… ah, siamo quasi arrivati.»

Gli hangar, gli svincoli, le carte d’imbarco già stampate: controllo valigie mentre Augusto borbotta tra sé: «come angelo della morte poteva capitarmi di meglio». EasyJet assicura che il volo è in orario, destinazione Heraklion. Solo bagaglio a mano, l’imbarco puntuale ma precoce, un quarto d’ora in piedi oltre le transenne e Augusto che si siede sugli scalini da quel povero vecchio che è; il tramestio tra cappelliere e cinture, l’ombra che si stacca da terra, l’umanità è incolpevole se vista dall’alto.

L’auto-con-conducente che Augusto ha prenotato (il conducente in questione è un turco di poche parole e scarsissimo inglese) fatica a trovare parcheggio, Astore e Augusto vengono deposti all’ingresso del Lato Boutique – alla reception li scambiano per nipote e nonno, come accadrà sempre nel resto del viaggio. Lato sarà Latona, che nella sua boutique aveva sfornato sia Apollo che Artemide. Il pregio maggiore dell’hotel è di essere molto vicino al museo archeologico; la loro stanza non è ancora pronta e il concierge annuncia con un sorriso che potranno usufruire di un upgrade.

Astore con malagrazia risponde che possono farne a meno, l’upgrade gli ha ricordato quando mamma voleva iscriverlo a una “scuola speciale”; Augusto assicura che invece accettano con gratitudine, anche se poi la vantata junior suite si rivela un salottino asfittico in più, con un divano. Fuori il sole picchia implacabile, fa troppo caldo per un 12 di giugno. Al museo c’è molta fila, Augusto già ansimante s’è seduto all’ombra ma Astore irrompe di corsa dicendo che l’ha fatto passare per invalido e possono entrare subito.

Le matrone di profilo coi riccioli blu, i prìncipi-fiore, gli acrobati rossi toreri: poteva essere l’India, o uno sviluppo liberty dell’arte egiziana, meravigliosamente simbolica. Solo a quei provincialoni dei Greci, paesani impauriti stretti nell’angoletto (la fiera di Olimpia!) poteva venire l’idea di scolpire la figura umana com’è nella realtà. Augusto vorrebbe fare con Astore il professore di storia dell’arte ma lo vede intento a esaminare una scultura mutila, probabilmente due lottatori che formano un groviglio. Uno dei due indossa uno strano copricapo che somiglia a uno scafandro.

La distanza culturale impedisce il dialogo, io penso agli Assiri e lui forse a colonizzatori alieni; siamo due mosche intrappolate in un bicchiere. È dai Greci che nasce il mio modello di corpo, che poi ho gonfiato per trasformarlo in nostalgia della pienezza. Astore in effetti non vede l’ora di uscire: i musei gli sono sempre sembrati il tentativo stupido di conservare una misura che non serve più. Quando con la scuola li hanno portati a visitare la chiesa di Sant’Eustorgio, l’unica immagine che gli è rimasta impressa è stata la Madonna col Bambino in braccio, tutti e due cornuti.

«Questa di cominciare coi reperti forse non è stata una buona idea… al labirinto si arriva in mezz’ora, che ne dici se ce lo sbrighiamo subito così domani partiamo per il mare?»

«Non ci pensare a me, ognuno cià i suoi percorsi.»

«Chiamo la signora di Falasarna e dico che arriviamo un giorno prima, non credo ci siano problemi.»

«Come vuoi (aggiungendo mentalmente “sei tu che paghi”).»

«La tua arrendevolezza non è normale…»

«Se ero normale mica stavo qua.»

Cnosso non può non colpire chiunque, a qualunque generazione appartenga; Astore ingenuamente si aspettava un vero labirinto, ma è la struttura stessa del palazzo a suggerirne uno. Un palazzo infinito, percorsi intricati con scale in su e in giù e tori neri dipinti, troppo nuovi per essere autentici. Augusto cerca di cancellare l’effetto Disneyland recuperando mentalmente quel che sta sotto i restauri selvaggi, mentre Astore è attratto dagli spalti in cui quelle che a prima vista sembravano le merlature di un castello sono invece, a guardar bene, corna azzurre dappertutto.

«Il Mino-tauro si chiama così per via di Minosse? Cioè il toro di Minosse?»

«Probabilmente… ma tutto comincia da un toro bianco, bellissimo, che il dio Poseidone aveva regalato al re Minosse perché lo sacrificasse in suo onore…»

«La so la storia, ma voglio focalizzare una cosa… se il dio del mare gli aveva mandato il toro bianco da sacrificare, perché Minosse lo ha lasciato vivere nel palazzo e ne ha sacrificato un altro?»

«Capisco dove vuoi arrivare, non ci avevo mai pensato… forse in realtà Minosse voleva che la moglie si innamorasse del toro?»

«E voleva guardare… Minosse era come Piero.»

«A dodici anni l’avevi quasi capito…»

«Ti dispiace se ci separiamo e ci ritroviamo all’uscita?»

Gli avvenimenti sfuggono di mano quando vogliono diventare significativi, sgusciano tra gli aborti dell’inconscio e orientano i destini. Augusto scende ad ammirare delle colonne color fegato, più larghe in cima che alla base; verifica il fake di un altro affresco poi si riposa all’ombra di un cipresso. Si è perso e scrive ad Astore: “dove sei?” – Astore gli risponde “ci vediamo alla tettoia dei rinfreschi” ma dopo venti minuti ancora non lo vede arrivare, in compenso gli arriva un assurdo “io sono sotto la tettoia ma non ci sono rinfreschi” – “cristo, ma che sei, rincoglionito?”. Lo va a recuperare sotto la pensilina del garage e lo trova zoppicante, è scivolato su un gradino di marmo.

«Sì, sono rincoglionito… ti avevo pregato di avvisarmi quando sarebbe successo e finalmente l’hai fatto.»

«Scusami, sei il mio rincoglionito… vi odio tutti a voi adulteri… (scuote di scatto la testa) a voi adulti.»

È appena mezzanotte e Astore già russa con la perentorietà della giovinezza; Augusto resta sveglio a chiedersi forse si aspettava che l’abbracciassi, ma perché diavolo l’ho portato qui? Ci rimugina per tutta la notte, per fortuna a Falasarna avremo un Airbnb con camere separate.


Da “I figli sono finiti”, Rizzoli, 2024

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