Dal 2013 le Nazioni Unite (ONU) in partnership col Comitato Olimpico Internazionale (CIO) hanno dichiarato il 6 aprile “giornata Internazionale dello sport per lo sviluppo e la pace”. La data è stata scelta in memoria del giorno di apertura dei primi Giochi Olimpici dell’era moderna, del 1896; è un’ulteriore celebrazione per affermare la strenua opposizione dello sport alla guerra, la sua efficacia nell’avvicinare popoli e culture, la sua capacità di contribuire al rispetto dei diritti umani. Affinché lo sport sia all’altezza di queste aspettative, vista la complessità dell’attuale contesto internazionale, sono attese decisioni importanti da parte del CIO.

La contemporanea presenza di due fronti di crisi (tra Ucraina e Russia e tra Israele e Palestina) evidenzia il principio di equità come nuova, ulteriore difficoltà con cui fare conti e paragoni. Come forse non accadeva da tempo, le prossime mosse della massima autorità sportiva potranno aiutare a dirimere i conflitti oppure, al contrario, spingere verso l’abisso la missione di pace dell’olimpismo. Chissà se il CIO saprà sciogliere i grossi nodi in cui è avviluppato: grovigli in cui paure legate al passato e ansie per il futuro si intrecciano, tenendo in stallo la capacità decisionale.

In ballo da una parte c’è il rischio che i cinque cerchi intrecciati siano declassati a una vuota icona da sventolare; dall’altra c’è il concreto pericolo di dividerli per sempre. Per evitare di assistere alla sgradevole applicazione del meccanismo di due pesi e due misure, l’opinione pubblica internazionale si aspetta che il CIO prenda una posizione chiara e definisca criteri oggettivi: strumenti indispensabili attraverso cui sancire l’esclusione dai Giochi olimpici dei Paesi belligeranti e le modalità di partecipazione dei loro atleti. La neutralità ha fatto il suo tempo.

Le richieste della Palestina

Secondo un comunicato diramato dalle federazioni sportive palestinesi, oltre 200 atleti e allenatori sono stati uccisi dall’esercito israeliano dal 7 ottobre 2023, data dell’attacco di Hamas. Una lista destinata ad aumentare e che rappresenta uno spaccato della società civile che ormai conta 33 mila vittime oltre ai dispersi, ai giornalisti e agli operatoti delle organizzazioni umanitarie. Molti atleti della delegazione olimpica israeliana che parteciperanno ai prossimi Giochi di Parigi sono militari. In Francia, stato ospitante, trenta parlamentari hanno chiesto al CIO di applicare agli atleti israeliani le stesse sanzioni inferte agli atleti russi e bielorussi ovvero una partecipazione neutrale senza inno e bandiera.

Richiesta che si aggiunge a quella ufficializzata da 12 federazioni facenti parte della FIFA (federazione internazionale calcio) per chiedere l’esclusione di Israele dalle competizioni calcistiche nelle selezioni per il campionato mondiale: la stessa richiesta fu avanzata per la Russia e venne immediatamente applicata, per Israele ancora tutto tace. La prima petizione per l’esclusione di Israele dalle principali competizioni sportive risale a gennaio di quest’anno. La Conferenza d’emergenza per la Palestina propose sanzioni volte a costringere il governo israeliano a cessare il fuoco e a porre fine al regime di apartheid contro i palestinesi: tra le sanzioni richieste c’era l’esclusione di Israele dalla FIFA e dal CIO. Anche in questo caso, ad oggi, nessuna reazione.

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Il freno dell’accusa di antisemitismo

Eppure in questi mesi il mondo sportivo delle reazioni nei confronti di Israele le ha avute. La federazione internazionale di hockey su ghiaccio ha escluso la nazionale israeliana dai campionati del mondo under 23. Per la sicurezza dei partecipanti motivava la comunicazione ufficiale. E’ antisemitismo ha replicato la federazione israeliana. Poche settimane prima il marchio Puma aveva ritirato la sponsorizzazione tecnica alla nazionale di calcio israeliana.

Fine del contratto dicevano i comunicati ufficiali. «Boicottare, disinvestire, sanzionare» diceva il sottotesto, in linea con l’azione promossa dal movimento BDS. È antisemitismo, ha risposto Israele. Non vi è dubbio che a frenare le decisioni vi sia il timore di questa accusa riservata a chiunque critichi il governo Israeliano. Nel caso del CIO avrebbe però un significato particolare, perché pesa ancora sulla sua coscienza non aver mai fatto veramente i conti con quell’onta che risale alle Olimpiadi di Berlino del 1936, quando si rifiutò di revocare al Terzo Reich, l’organizzazione dei Giochi. Mantenere anche oggi la posizione di neutralità significherebbe passare da protagonisti della pace a complici di chi agisce contro libertà e diritti umani: e una seconda volta sarebbe fatale.

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I boicottaggi

Quando si parla dei boicottaggi dei Giochi olimpici si fa riferimento prevalentemente a due casi. Il primo è del 1980 quando gli USA trascinarono nella loro scelta oltre metà dei Paesi membri CIO in reazione all’invasione russa dell’Afganistan. Il secondo è dell’edizione successiva, quando fu il blocco dei Paesi sovietici a restituire la cortesia. In entrambi i casi, come in altri meno noti, l’azione non partì dal CIO ma dai suoi Stati membri. Anche la regola della neutralità ebbe però la sua grande eccezione: nel 1964 il CIO escluse il Sud Africa, prima dai Giochi poi dall’elenco dei suoi membri a causa del regime di apartheid.

Ci vollero quasi trent’anni, e il sacrificio di due generazioni di atleti sull’altare dell’olimpismo, per ottenere l’abolizione della segregazione razziale. Il Sud Africa venne riammesso nel 1992 e pochi anni dopo fu Nelson Mandela, attraverso il campionato mondiale di rugby, a compiere un capolavoro di integrazione sociale. Oggi, proprio il Sud Africa si assume la responsabilità di accusare Israele di genocidio alla Corte Internazionale di giustizia. Chissà se e quanto pesano questi fatti per il CIO. 

Se è vero che il CIO ha sempre convissuto con il timore che sorgessero organizzazioni sportive concorrenti, ora quel timore ha confini vasti che vanno dal Sud Africa alla Russia, dal Brasile alla Cina. Pare infatti che il blocco dei Paesi BRICS abbia una rete di molti altri Stati con cui immaginare dei Giochi alternativi: starebbe dunque per nascere l’antagonista delle Olimpiadi? Che sia per contrastare un futuro concorrente, che sia per evitare di implodere per eccesso di neutralità, il CIO è costretto a uscire dallo stallo per trovare sostegno alla sua credibilità.

Come potrebbe fare lo spiega Patrick Clastres, storico dell’Olimpismo all’Università di Losanna: «Il CIO è un ente di natura privata che grazie al reclutamento per cooptazione, potrebbe eleggere i suoi membri tra i leader sportivi che si battono per le libertà, agendo come avamposto democratico e pacifico per il mondo dello sport ed evitando agli atleti e alle atlete di correre rischi politici».

Verrebbe da dire che la soluzione sia più utopica del problema che intende risolvere. Anche perché, chissà se al CIO il 6 aprile, mentre celebravano la data di apertura dei primi Giochi olimpici dell’era moderna, si saranno ricordati che era anche la giornata internazionale per la pace e la libertà attraverso lo sport.

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