Margherita Hack studiava le stelle, le amava e ci ha insegnato, con la sua grande opera di divulgatrice, che siamo fatti della loro stessa materia; diceva: «Tutti gli elementi, dall’idrogeno all’uranio, originano dalle reazioni nucleari che avvengono nelle supernove, stelle molto più grosse del sole che, alla fine della loro vita, esplodono e si sparpagliano nello spazio. Tutti noi abbiamo un’origine comune, siamo figli dell’evoluzione dell’universo».

Per sostenere lo sguardo nel leggere l’immensità della volta celeste, oltre il soffitto di cristallo, poteva contare su una mente acuta e un’educazione libera (di cui ringraziava i genitori) ma anche di un carattere forte e gambe potenti (di cui ringraziava lo sport). Salto in lungo, salto in alto, corsa, basket, la bicicletta, sono stati parte integrante della sua formazione e appigli sicuri a cui aggrapparsi per mantenere la rotta di una vita autentica, anticonformista, vissuta fuori dagli schemi stringenti del suo tempo. Margherita Hack nacque nel 1922, anno dei primi Women’s World Game della storia, l’inizio di uno straordinario percorso di giustizia, frutto dell’impegno e della caparbietà di un’insegnante francese di nome Alice Josephine Milliat. Chissà se la polvere di stelle di cui era fatta Margherita era carica dell’energia di quel 1922, anno in cui venne posta la pietra angolare dello sport delle donne e, con esso, dell’emancipazione femminile.

Chi era Alice Milliat

Cresciuta in Bretagna con una classica educazione di fine 800, lontana anni luce (per restare in metafora astrofisica) dallo sport, Alice se ne innamorò perdutamente durante un viaggio in Inghilterra. Iniziò col praticare canottaggio e nuoto, con ottimi risultati, ma ben presto realizzò che il traguardo più importante, a cui doveva ambire, era rimediare a una grave discriminazione che vedeva lo sport femminile come una “tollerata” comparsa, una gentile concessione del patriarcato nella maestosità dei Giochi olimpici dell’era moderna. Cercò il dialogo col barone De Coubertin e i membri del neonato Comitato olimpico internazionale ma, pur se con motivazioni diverse, le risposte facevano capo allo stesso assunto: «Lo sport femminile è poco pratico, privo di interesse, antiestetico; le donne che lo praticano sono delle pazze, fanatiche».

Alice Milliat e le sue colleghe, costantemente ridicolizzate, non si persero d’animo; supportate da un movimento enorme (dalle suffragette alle militanti desiderose di liberarsi dalle catene dell’emarginazione camuffate da corpetti che non facevano respirare e da gonne che impedivano di muoversi) presero l’inevitabile scelta di aprire una nuova via e organizzare gare solo per donne: i giochi mondiali femminili per l’appunto. I padri fondatori dell’olimpismo accolsero il fatto come una grande vittoria ma avevano sottovalutato un aspetto o meglio, non potevano proprio immaginare che quell’evento autonomo, originatosi dal loro rifiuto, richiamasse oltre ventimila spettatori: decisamente troppi per equipararlo ad una stravaganza pensata da e per donne folli; terribilmente troppi per continuare a considerarlo antiestetico e non interessante; assolutamente troppi perché non compromettessero il messaggio di universalità dell’olimpismo.

Il diritto di esserci

Fu così che dal 1922 ebbe ufficialmente inizio la lunga rincorsa al diritto di partecipare che si concluderà solo tra pochi mesi, a Parigi, nella trentatreesima edizione dei Giochi olimpici dell’era moderna, i primi che vedranno gareggiare lo stesso numero di atlete ed atleti. Per oltre un secolo, l’impegno di Alice Milliat ha continuato il suo percorso verso la meta, attraverso la forza di tante donne audaci che con lo sport e per lo sport, hanno lottato e contribuito al diritto di essere libere di scegliere la propria vita. Ognuna con la sua polvere di stelle, ha illuminato la via di quel messaggio di fratellanza e sorellanza che afferma la meraviglia del cosmo, oltre il soffitto di cristallo.

Oltre si, perché quel tetto c’è ancora. Proprio perché lo sport ha rappresentato un grimaldello per forzare i rigidi schemi che affidano agli uomini i ruoli di produzione e alla donna quelli di riproduzione, lo sport costituisce l’ultimo baluardo del patriarcato. E sebbene il prossimo luglio si celebreranno i primi Giochi olimpici della storia con pari partecipazione, non per questo potremo considerare chiuso il gender gap. L’ultima carta da giocare, il colpo di coda del patriarcato è il gattopardesco «cambiare qualcosa affinché nulla cambi». Perciò, è necessario superare la narrazione vittoriosa che ha caratterizzato le iniziative attorno all’8 marzo e cercare oltre le apparenze.

I vertici della piramide

Il Comitato olimpico internazionale, nel 2021, ha emanato un quadro di riferimento strategico per favorire la parità di genere e l’inclusione, al fine di orientare le azioni dei comitati olimpici nazionali in cinque aree: partecipazione, leadership, sport sicuro, rappresentazione, allocazione delle risorse. La partecipazione è dunque solo uno degli ambiti da osservare con attenzione. Staremo a vedere infatti, se oltre alla perfetta parità tra atleti e atlete ai Giochi di Parigi, assisteremo anche a una pari partecipazione delle donne nei ruoli che costituiscono il modello organizzativo.

I dati ufficiali ci dicono ad esempio che, a Tokyo 2020 le donne nel ruolo di capo delegazione erano il 20%; nei ruoli tecnici la percentuale era appena del 13%. Stabilire un’equa partecipazione tra gli atleti è tutto sommato semplice, una mera questione di regolamento. Molto più complicato è agire sui meccanismi di gestione che assegnano incarichi tecnici o dirigenziali all’interno delle realtà nazionali. E a proposito di realtà nazionali, di seguito qualche numero sulla nostra.

La questione italiana

In oltre cento anni di storia dello sport nazionale, dalla nascita delle prime federazioni (la prima in assoluto fu la ginnastica nel 1869) per arrivare alle attuali 48 sono stati circa 800 i ruoli di presidente che mai sono stati ricoperti da una donna. Solo nella recente tornata elettorale è arrivata l’eccezione che conferma la regola, con l’elezione di Antonella Granata alla federazione squash e Laura Lunetta alla federazione danza sportiva. Molti i presidenti che hanno superato i tre mandati (ogni mandato dura 4 anni) con punte record di gestione del potere di 8 mandati (federazione pattinaggio a rotelle e tiro a volo) a dimostrazione che il sistema patriarcale discrimina le donne e accetta di non rigenerarsi.

Ovviamente mai una donna è stata presidente del Coni. Con confini tracciati da questi presupposti e scolpiti nella pietra di un sistema elettorale esclusivo, è piuttosto scontato che in territorio italiano (ultima ricerca del Censis) dei 4.708.741 atleti tesserati nelle diverse Federazioni, le donne siano appena il 28%, le allenatrici il 19,8% e le dirigenti di società il 15,4%.

Non per dare i numeri ma per leggere cifre che esprimono bene le discriminazioni strutturali e intersezionali che continuano a rappresentare un invisibile soffitto di vetro o tetto di cristallo, che dir si voglia. Per lo sport e attraverso lo sport, il cammino di giustizia è ancora lungo ma continuerà ad essere potente se ogni passo percorso da uomini e donne, fratelli di polvere di stelle, sarà illuminato dalla luce di Margherita e delle sue gemelle astrali.

© Riproduzione riservata