Mi toccava comprare un vestito per Halloween. Qualcuno aveva pensato di dare una festa in maschera e quella sera non me la sarei cavata con una dentiera da vampiro. Il negozio era una sorta di discount con i prezzi perennemente in saldo, tipo un grande magazzino caduto in disgrazia. Mi aggirai distratto tra quelle scaffalature, nonostante la proposta per la festa a tema fosse copiosa, e abbondassero costumi spaventosi di ogni tipo. Più per il gusto di esplorare che per una reale volontà d’acquisto raggiunsi una parte del negozio che mi parve subito più segreta.
Anche i neon – accecanti nel resto delle sale – qui diventavano flebili come fiamme di candele votive. C’era un mucchio di vestiti, sia maschili che femminili, ma sembravano ordinari. Eppure passavo la mano sui tessuti, esterno e interno, con una curiosità e direi morbosità crescente. Perché indugiavo su quelle superfici? C’era un che di stantio e di irrigidito in quegli abiti, di vecchio e trapassato, che mi commuoveva.

I vestiti dei morti 

Il padrone del negozio intanto si era avvicinato.

«Ha trovato qualcosa d’interessante?», mi chiese.

«Non ancora», confessai. «C’è tantissima merce».
«È vero, c’è un po’ di tutto qui dentro».

Proprio in quel momento toccai la tasca di una camicia di lino e avvertii distintamente una lacerazione nel tessuto: «Ma è roba di seconda mano?».

Il padrone si chiuse dietro a un sorrisetto: «In un certo senso è roba di seconda mano, si potrebbe dire anche così».

Lo guardai con aria interrogativa. «Che significa?».

«Be’ potrà sembrarle singolare, ma in questa sala trova dei vestiti appartenuti a defunti».

Mi sentii gelare la mano che si trovava ancora sopra la tasca della camicia di lino.

«Come defunti?», domandai, allibito.

«Sì, da molti anni siamo un punto di raccolta per questo particolare genere di vestiario. Andiamo anche a prenderli a casa, interi armadi talvolta».

Restai ammutolito, e allora il padrone si sentì in dovere di proseguire:

«È una cosa a cui non pensa mai nessuno, vero? In genere gli abiti dei morti vengono conservati come reliquie, ma ci sono tantissime persone che invece vogliono disfarsene il prima possibile».

Ero ancora incredulo. «Mi sta dicendo che tutti questi vestiti sono…».

«Sì, sono appartenuti a gente che è morta, sono gli abiti dei morti».

Un cappotto autunnale 

Continuai ad aggirarmi in quella sala con un’emozione, un groppo in gola, che non sapevo dire. Adesso passavo in rassegna quegli abiti, li tiravo giù dalle grucce come un invasato che vuol capire misteri più grandi di lui. Chissà a quale donna era appartenuto un bel vestito elegante di seta nera, chissà a quante feste di società era stato sfoggiato prima di essere appeso in quel posto tetro, quel doppio della tomba della sua proprietaria! E lo stesso rimuginavo di gilet, tailleur, impermeabili, scialli e cappelli.

Poi mi colse un fremito più intenso, un richiamo che mi parve provenire dalla gola del tempo. Mi pietrificai davanti a un cappotto autunnale di velluto verde oliva, con una fodera a losanghe. Restai a contemplarlo a lungo, molto a lungo.

«Che c’è?», mi chiese il padrone. «Va tutto bene?».

«Mi è appena successa una cosa assurda», ammisi. «Quel cappotto è molto simile a un capotto che ho regalato a mia moglie, qualche tempo fa».

«Ah sì?».

Istintivamente afferrai il cellulare e composi il numero di mia moglie.

«Pronto?», le dissi, con un tono disperato che a lei dovette suonare incomprensibile.

«Che c’è? Io sono ancora in mezzo al traffico, tu hai trovato un costume adatto?».

«Sono dentro al negozio».

«L’hai trovato allora?». 

«Non ancora, però sto cercando».

«Dai non fare lo schizzinoso, è Halloween, non bisogna essere eleganti, devi trovare qualcosa di divertente».

«Lo so che è Halloween».

«E allora che aspetti? Vuoi un suggerimento?».

«No, volevo sapere del cappotto verde oliva mezza stagione che ti ho regalato».

«E che c’entra? Comunque ce l’ho addosso».

«Ce l’hai addosso in questo momento?».

«Sì, oggi è una bella giornata di sole, sai che l’adoro».

«Restai in silenzio, non sapendo bene che altro dire».

«Stai bene?», mi chiese mia moglie. «Attacco sennò va a finire che mi schianto con la macchina. Compra quel costume ok?».

«Ok, lo compro».

«Non fare lo schizzinoso, prometti».

«Prometto».

Il colore delle losanghe 

Attaccai e mi precipitai di nuovo su quel cappotto. Chiamare mia moglie non mi aveva per niente rassicurato, e anzi mi scoprivo ancora più inquieto e angosciato a toccare quell’indumento. Più che simile era identico, in tutto e per tutto. Mi ricordavo dei bottoni bianchi di madreperla, per esempio. Poi tastai l’interno della fodera e mi venne un dubbio salvifico: ero proprio sicuro che anche il cappotto di mia moglie avesse le losanghe bianche e viola? Non erano bianche e arancioni? Non era forse stato tutto un abbaglio causato dai discorsi macabri del padrone e dal quel giorno infausto di passaggio dalla luce all’oscurità che per semplificare ed esorcizzare avevamo deciso di chiamare Halloween?

Richiamai immediatamente mia moglie.

«Che c’è?», fece, infastidita dalla mia petulanza visto che stava ancora guidando.

«Scusami, una sciocchezza al volo. Le losanghe del cappotto di che coloro sono?».

«Che?».

«La fodera del cappotto».

«Oddio, così su die piedi non me lo ricordo, non te la prendere, è il mio cappotto preferito, lo sai. Lo metto sempre, ci vivrei con quel cappotto addosso, lo sai».

«Lo so amore, ma ho bisogno di sapere il colore delle losanghe».

«Cos’è un quiz a premi?».

Deglutii a fatica. «Sì. È un quiz a premi».

«Mi sembra di ricordare che sono bianche e viola».

«Non erano arancioni? Non erano bianche e arancioni?».

«Oddio adesso mi fai venire il dubbio».

«Se lo indossi puoi controllare».

«Per colpa tua prima o poi farò un incidente con la macchina, lo sai? Aspetta, scosto un lembo del cappotto ma ce l’ho sotto il sedere».

Passò qualche secondo in cui tentai di pregare, o qualcosa di simile.

«Ehi, ci sei ancora?», riprese mia moglie.

«Sì sono qui».

«Ora io lo so e tu no», ridacchiò.

«Amore, ti prego».

«Ti confermo, da quel che ho potuto vedere le losanghe della fodera sono bianche e viola».

Socchiusi gli occhi.

«Pronto? Ci sei ancora? Ti ho fatto vincere al quiz a premi?», disse mia moglie.

«Dovei sei?», le domandai.

«Tra un paio di sottopassi sono a casa».

«Vai piano. Ci sentiamo dopo».

Suggestioni 

Quando interruppi la comunicazione vidi gli occhi del padrone su di me.

«È un luogo che può far pensare cose inverosimili», mi disse. «Abbagli. Suggestioni».

Annuii ma intanto mi ero avvicinato di nuovo al cappotto. Penzolava sulla gruccia come un impiccato. Tornai a esplorare le losanghe bianche e viola, ma stavolta al tatto emerse un ulteriore particolare: rilevai come delle minuscole bruciature, una zona circoscritta del raso che si era abrasa.

«In questo cappotto c’è un’imperfezione evidente», esclamai.

Il padrone si avvicinò e volle toccare lui stesso. «Sì, è vero. In questo punto sembra che abbia preso fuoco. Posso darglielo a un prezzo stracciato, se vuole».

Non aveva ancora finito di parlare che stavo richiamando mia moglie. Provai una, due, tre volte.

«Che succede?», mi chiese il padrone, ora serafico, benché con un’espressione torva da becchino.

«Stavo provando a richiamare mia moglie», dissi, con un filo di voce. «Adesso il suo telefono è irraggiungibile».

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