Sappiamo tutti che il padre è evaporato, sparito, volatilizzato. Questo nelle famiglie, e nella società. Ma in letteratura il padre non è evaporato affatto, e non evaporerà mai. Cosa resterebbe della letteratura, dall’Odissea ai Fratelli Karamazov a Patrimonio di Philip Roth, senza il padre? E nemmeno dal romanzo italiano contemporaneo il padre è evaporato. Anzi è più presente che mai. Il recente libro di Emanuele Trevi, La casa del mago, in cui il mago è il padre dello scrittore, Mario, noto psicoanalista junghiano (ne ha parlato su Domani Tiziano Scarpa) mi ha fatto tornare in mente altri due romanzi dedicati da scrittori italiani al proprio padre: Vita e morte dell’ingegnere, di Edoardo Albinati, e Geologia di un padre, di Valerio Magrelli. È vero che questi due ultimi sono incentrati sulla morte del padre, mentre quello di Trevi apparentemente non lo è, o lo è di meno. Ma, appunto, solo apparentemente. Non è per nulla casuale che tutti e tre abbiano scritto del padre alle soglie dei propri sessant’anni.

Autobiografie del proprio padre

Dunque, che padri sono i padri di queste tre scritture o romanzi o autobiografie del padre (come Jamaica Kincaid ha scritto una Autobiografia di mia madre)? Direi che, nella sequenza di trasformazioni radicali cui è andata incontro, nel giro di tre generazioni, la figura del padre, sono padri intermedi.

Intermedi tra vecchia figura del padre autoritario, del padre padrone, del pater familias, dispotico ma anche punto di riferimento assoluto, e il padre della generazione cui appartengono Albinati, Magrelli, Trevi, quel padre che si sforza di essere presente nella cura dei figli, cerca di farsi carico delle loro esigenze, quello che con un orrido neologismo qualcuno chiama “mammo”, come se occuparsi dei figli, anche accudendoli, fosse un’abdicazione al proprio ruolo maschile. Nessuno dei padri qui descritti sembra farlo, probabilmente lo avranno fatto le mamme (si tratta, e anche questo probabilmente oggi sarebbe diverso, di famiglie tradizionali: nessun padre separato).
Ma nessuno, d’altra parte, cerca di prevaricare le scelte dei figli, di farsi valere con la forza o col ricatto, tutti lasciano liberi i figli di seguire la strada che preferiscono e talora, per esempio da parte di Albinati, questo provoca una qualche meraviglia nel figlio che non se lo aspetta, e che d’altra parte presenta esplicitamente la scelta di rifugiarsi nei libri e nella scrittura come una scelta fatta anche in polemica implicita con il padre.

Distanza

Una raccolta di poesie di Milo De Angelis si intitolava proprio così, Distante un padre, trasformando il padre non tanto in una misura della distanza, ma in una distanza assoluta, inconfrontabile, resistente a ogni paragone possibile. Questa distanza appare in effetti sempre incolmabile, sempre abissale, perfino nel caso di padri con pregiudizialmente lontani, come quelli descritti da Trevi, Albinati, Magrelli. Il padre di Trevi potrebbe, dovrebbe sembrare meno distante degli altri. Anni fa, il figlio scrisse addirittura una presentazione del padre sotto forma di dialogo con lui, con un titolo parlante: Invasioni controllate. Ciò non ostante, il padre resta per Trevi «meraviglioso e misterioso», un “enigma” ancora più difficile da sciogliere. Il ritornello che Trevi attribuisce alla madre, il solito «lo sai com’è fatto», una vera antifrasi per dichiarare la rinuncia a capire i comportamenti dell’altro, diventa inevitabilmente anche suo. Trevi va a vivere nella casa che aveva abitato il padre (è la casa del “mago”), e questo è anche un modo per capire qualcosa di più della sua vita, ma è destinato a sentircisi come un “clandestino”.

Per Magrelli il padre è addirittura “un alieno”. Se non da mondi lontani, certamente viene da epoche che al figlio appaiono remotissime, ancestrali. Il titolo non è solo una conferma della inclinazione del poeta Magrelli per le metafore tratte dall’inorganico (a partire dalla dichiarazione di poetica: «La poesia non è specchio, piuttosto il vetro zigrinato delle docce …»).
Geologia di un padre è letteralmente uno scavo, un disseppellimento, e non per nulla il racconto di Magrelli si apre con un’esumazione. Albinati dedica molte pagine alla distanza dal padre, ripete più volte di non averlo mai capito, di non saperne nulla. Questa distanza è un a priori, non ha nulla a che fare con situazioni di prossimità o contiguità, e meno ancora con attriti e scontri. Albinati e il padre possono essere irrimediabilmente lontani anche quando sono loro due soli su una barchetta a vela e si scambiano ruoli e incombenze.
La distanza del figlio dal padre è anche uno schermo contro quello che appare la paura del figlio, di tutti i figli, di assomigliare troppo al proprio padre. Invecchiando, ciascuno finisce per scoprirlo. Il figlio: una parodia del padre, un impostore, una brutta copia.

Le domande che avremmo voluto fare

Ai morti non si possono fare domande, quindi è inevitabile che il mistero si accentui con la scomparsa del padre, e rimanga il rimpianto di non aver fatto prima le domande che adesso vorremmo fare, che ci illudiamo avremmo fatto se solo ce ne fosse stato il tempo, mentre sappiamo benissimo che non è questione di tempo e che non le avremmo fatte comunque.
Nel caso di Magrelli e Albinati, il fatto che io padri sino morti dopo una malattia che ha portato i figli più vicini al padre di quanto siano mai stati da adulti, accentua l’idea che questa possibilità fosse reale, sia stata reale. Magrelli lo dice esplicitamente, arriva a paragonare la malattia ad un grimaldello, un piè di porco col quale scassinare i segreti del padre.

Albinati scrive con una punta di disprezzo di quelli che «fanno parlare i morti per farsi dare ragione da loro», ma in qualche modo è quello che tutti coloro che scrivono del padre stanno facendo. Tanto vero che a un certo punto vorrebbe nientemeno che il padre gli rivelasse il senso della vita, che è chiedere al padre di tornare ad essere quel punto di riferimento assoluto che ha smesso di essere evaporando.
Ma nessuno, nemmeno il padre, può garantire questo senso per un altro, come si garantisce un debito, e ognuno, come raccomandava Federico II di Prussia ai suoi sudditi, deve diventar beato a suo proprio modo. Tutte le eredità, quelle spirituali non meno, anzi più, di quelle materiali, vanno riguadagnate.

Figlio di tuo figlio

Tra l’altro, chi fa domande si mette in una posizione di superiorità (l’etichetta di Corte prescrive che al Re non si possano rivolgere domande). Domandare al padre, quindi, è rovesciare le parti. «Ora io sono mio padre», scrive Magrelli con tutta chiarezza. Trevi si siede sulla sedia girevole che il padre usava durane le analisi dei suoi pazienti e si sente «come un bambino che gioca a fare il papà».
La vecchiaia e la malattia del padre ci mettono drasticamente di fronte a questo rovesciamento di ruoli, in quanto ci obbligano a sentirci responsabili di colui che era responsabile per noi o lo è stato a lungo quando eravamo bambini e poi ragazzi.
Magrelli non nasconde che questa situazione può innescare un sentimento di rivalsa, che è il rischio che sempre incombe su chi accudisce un adulto, e mette icasticamente in relazione il gesto di sé stesso, padre, che taglia le unghie alla propria figlia e quello di sé stesso, figlio, che le taglia al padre infermo.

Non è affatto facile diventare padri del proprio padre. A ben poco serve a questo scopo l’esperienza personale di aver avuto, a nostra volta, figli. Anzi Magrelli ha un apologo straordinario sulle tensioni che si producono quando si trova a rivestire il ruolo paterno in presenza del padre, mentre in Albinati questo si traduce in una vera e propria resistenza a pensarsi altrimenti che come figlio. Come ognuno di noi, sa che resterà per sempre figlio («ho imparato che finché camperò sarò sempre, prima di tutto, un figlio»). Simmetricamente, non riesce a pensare che il padre possa essere stato, a suo tempo, figlio. Arriva supporre una sorta di autogenerazione del padre. Ma tutto questo sfocia nel pensiero che la malattia del padre, durata nove mesi, sia stata una sorta di paradossale gestazione che abbia avuto come esito la morte anziché la nascita.

Il padre inetto

Nelle strategie messe in campo per diventare padri dei nostri padri, accanto alla rivalsa dell’accudimento, un ruolo incoercibile lo gioca la volontà di vederlo, almeno sotto qualche aspetto, come incapace. Trasformarlo in un inetto, come Peppa Pig ha bisogno di vedere nel padre innanzi tutto un pasticcione.
I padri dei nostri tre scrittori erano tutte persone, come si dice, realizzate: costruttori, imprenditori di successo, intellettuali di spicco nel caso di Trevi. Ma se sei padre non basta, perché non c’è grandezza che non presti il fianco di qualche incapacità, se a giudicarti è tuo figlio.

Il padre di Trevi, per dire, non sa guidare, cioè guida malissimo (o forse ha cominciato a guidare male, come molti, in vecchiaia), e la descrizione del padre al volante è uno dei passi esilaranti di un racconto che vira spesso sul registro comico. Quello di Magrelli è soggetto a irresistibili e inconcludenti scoppi d’ira, ma soprattutto il figlio lo vede incapace di districarsi sensatamente nelle piccole incombenze della vita, preda di chiunque lo voglia imbrogliare: «tragicamente inadatto, imprevidente».
Albinati dichiara di non sapere assolutamente descrivere fisicamente il padre quando è sano ed energico, ma lo descrive in modo minuto, quasi ossessivo, nell’indebolimento e nel disfacimento della malattia. Il padre si è rimpicciolito, anche letteralmente: «Prima lui era più altro di me, adesso sono più alto di lui». Indebolire il padre, però, è un procedimento rischioso, perché è evidente che scoprirsi superiori al padre non svela innanzi tutto la sua fragilità, ma la nostra.

La Scrittura del padre

Non è solo il registro espressivo scelto (umoristico e leggero, come abbiamo visto, in Trevi, serio e “medio” in Magrelli, a tratti tragico e “alto” in Albinati) a rendere così diverse queste tre autobiografie paterne. In tutte e tre, tuttavia, c’è una sorta di riflessione di secondo grado sulla scrittura e sul rapporto tra paternità e scrittura, tra il proprio padre e la scrittura.
Albinati può evocare quasi un interdetto paterno: lo scrivere come esibizione di una intimità che il riserbo borghese imporrebbe di tenere nascosta. Forse, perciò, la sua è la scrittura biografica che si distende nel modo più tradizionale, diventando in tutta la seconda parte del libro la storia della malattia e della morte del padre, anche se resta il sospetto che ciò accada per resistere a un impulso che porterebbe in una direzione completamente diversa (a un certo punto Albinati parla del suo libro come di «una sorta di saggio su mio padre»).
Magrelli mima nella forma stessa del libro la vita del padre, articolandolo in 83 paragrafi, per lo più brevi, uno per ogni anno di vita del genitore. Ma il racconto non si snoda affatto, o solo in minima parte, seguendo un ordine cronologico, procede per illuminazioni successive, divaga sul filo della memoria (ostentatamente messa in primo piano dall’autore: «L’unico documento di ciò che scrivo sono io»).
Bellissima è la pagina finale, in cui Magrelli ricorda come il padre, che era solito accompagnare il figlio bambino a vedere chiese e monumenti anche non facilmente visitabili,  lo esortasse fin da piccolo a non farsi fermare da guardiani scontrosi, custodi infingardi, ed è splendida e volutamente risarcitoria questa immagine del padre che apre le porte e invita alla scoperta.

In Trevi, poi, il legame tra eredità paterna e scrittura non può che porsi in modo più stretto, e profondo. Trevi esorcizza il pericolo di addentrarsi in meandri troppo contorti ricorrendo all’apologo. Il padre aveva un curioso passatempo, raccoglieva sassi apparentemente insignificanti e poi a casa, nei momenti di quiete, li lavava, puliva, lucidava secondo un suo personale procedimento, fino a renderli lucidi, splendenti, e per ciò stesso unici, riscattandoli dall’anonimato dell’esser pietre. Ebbene, che altro fa lo scrittore se non riscattare dall’uso che le logora le parole, che sono apparentemente quelle di tutti i giorni ma grazie al lavoro dello scrittore diventano brillanti come gemme?

Tornare alla casa del padre

Tutti e tre i nostri scrittori sono stati giovani qualche anno dopo il ’68. In qualche modo, hanno vissuto la loro adolescenza negli anni del rifiuto dei padri, quelli che hanno reso l’evaporazione del padre un dato storico. Gli anni del rifiuto dell’obbedienza, della diffidenza nei confronti degli adulti, della rivolta contro la scuola e la famiglia. Impossibile pensare che la loro presa di parola sui padri non sia anche un modo di ripensare quello che è accaduto, anche se forse solo Albinati arriva a immaginare che forse proprio l’obbedire al padre poteva esser quel tramite tra figlio e padre cercato e rifiutato insieme.
Cercato perché rifiutato: nessuno dei tre scrittori ha continuato la strada del padre, anche se tutti avvertono il condizionamento esercitato dalla professione da lui esercitata e ne parlano a lungo (al rapporto con la professione del padre, medico ginecologo, ha dedicato belle pagine un altro dei nostri scrittori, Paolo Giordano).

È forse troppo dire che non solo Trevi, ma tutti e tre, in fondo, mettono in scena un ritorno non solo al padre, ma alla casa del padre? Il figliol prodigo torna dal padre, ma soprattutto torna alla casa del padre. E Trevi ha delle osservazioni finissime sul fatto che ogni figlio è un figliol prodigo, perché nessuno di noi è senza colpa, come figlio e come uomo. Alla casa del padre si torna sempre come reduci, mai come trionfatori.

L’atmosfera di questi ritorni, quindi, non può essere che quella dell’elegia, del ritorno all’ordine. C’è, inevitabile, un senso di ripiegamento, di disincanto. Abbiamo tanto cercato qualcosa di diverso, e abbiamo avuto ragione nel farlo. Ma per quanto si cerchi di saltare lontano, l’origine si protende fino a noi, finisce per riprenderci. Non si può saltare lontano dalla propria ombra. E, con un poco di disagio, ci sembra che questo stato d’animo non si possa esprimere che con le parole di uno degli Inni alla notte di Novalis: «L’ansia del nuovo ci ha lasciati/alla casa del padre siam tornati».

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