Dal 2011 Gianluigi Colin, artista e storico art director del Corriere della Sera, raccoglie i tessuti con cui vengono pulite le rotative dei giornali e i sistemi offset degli editori d’arte. Sono panni di poliestere trattati con solventi e impressi da ciò che rimane dell’inchiostro utilizzato per la stampa. Colin prende questo materiale e, senza interventi ulteriori, lo intelaia per creare quadri astratti.

Sono opere nelle quali appaiono texture dalle ritmiche incalzanti e sfumature di colori più o meno sgargianti che riecheggiano architetture moderniste viste frontalmente. Bruno Corà e Arturo Carlo Quintavalle li hanno paragonati agli Abstrakte Bilder di Gerhard Richter.

Scarti di rotativa

Si tratta di composizioni realizzate non intenzionalmente da una macchina, composizioni che l’artista sceglie e ritaglia con l’occhio del pittore astratto, per poi farle diventare tutt’uno con una tela da riporto e montarle su un telaio.

Su questi tessuti, che Colin definisce “Sudari laici del nostro tempo”, sono impresse memorie non più intellegibili di parole e immagini che qualcuno, in un certo momento della storia, ha voluto consegnare al futuro ma che, ora, sono diventate inaccessibili. Per l’artista questi “scarti da rotativa” assomigliano alle nostre menti dimentiche, attraversate da messaggi verbali e figurativi, ma incapaci di trattenerne il contenuto.

La mostra a Piacenza

È a questa dinamica che si riferisce il titolo amaro della sua ultima mostra – Quel che resta del presente – curata da Achille Bonito Oliva nell’imponente chiesa sconsacrata di Sant’Agostino, a Piacenza (fino al 19 novembre).

Quello di Colin è un intervento site-specific nel quale i suoi “sudari” entrano in risonanza con lo spazio architettonico che li ospita. Dieci grandi tele di tre metri e mezzo per due sono state inserite nelle cornici barocche, là dove in passato si trovavano le pale degli altari minori.

Altre 50 opere, di dimensioni più contenute, sono state poste nelle nicchie delle navate laterali. Lungo la navata centrale, invece, l’artista ha posto un’istallazione realizzata con grandi drappi che calano dall’alto e che evocano da una parte le decorazioni liturgiche, dall’altra i nastri di carta che corrono lungo gli ingranaggi delle rotative.

A completare l’installazione, Colin è intervenuto sulle statue dei santi, decapitate dall’esercito napoleonico, ridonando loro una testa realizzata con le stoffe inchiostrate. Un tentativo di riparare il danno di una furia iconoclasta in qualche modo simile alla cancel culture contemporanea.

Arte e vita

La ricerca artistica di Colin, che ha iniziato la sua carriera come fotoreporter nella redazione di Pordenone del Piccolo di Trieste per poi approdare ancora giovanissimo in via Solferino e diventarne l’anima estetica, si è sempre nutrita della riflessione sul proprio lavoro giornalistico. Fin dalle prime prove degli anni Ottanta, l’oggetto-giornale, la dialettica tra fatto e interpretazione, il dialogo tra immagini di cronaca e storia dell’arte sono state al centro della sua attenzione.

Un po’ come è successo per Emiliò Isgrò, che ha concepito le sue cancellature durante le correzioni delle bozze quando lavorava nei giornali, per Colin la redazione e la tipografia sono stati luoghi di incubazione di idee che hanno innanzitutto il carattere di interventi concettuali.

Un’arte che nasce dalla vita e che ritorna alla vita, come spunto di riflessione sulle dinamiche della società dell’informazione, sulle sue virtù, sulle sue storture e sul bisogno che la nostra esistenza non faccia la fine dei giornali di carta: che a mezzogiorno sono buoni solo per avvolgere il pesce.

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