Faccio parecchi laboratori di scrittura, nelle università, nei licei e per gli adulti. Ho a che fare da vicino con i lettori e le lettrici di oggi. Mi sono reso conto che Daniele Del Giudice non è uno scrittore molto conosciuto. Allora mi impegno a farlo leggere, consiglio le sue opere. La reazione è appagante: «una rivelazione», «meraviglioso», «nessuno me ne aveva mai parlato».

Si sente sempre dire che bisogna accudire l’eredità culturale, trasmettere ai giovani le cose che contano, tenere accesa la fiamma. Bene, cari librai, insegnanti, intellettuali e istituzioni, ecco un caso concreto in cui darsi da fare. Per farli brillare, i metalli preziosi vanno lucidati.

Tenere viva la memoria

Daniele Del Giudice si è ammalato di demenza precoce una quindicina di anni fa, e da allora, a poco a poco, anche la sua notorietà si è smorzata. La casa editrice Einaudi si è adoperata per tenere viva la sua presenza, con raccolte di scritti e riedizioni dei suoi libri maggiori, arricchiti da inediti. Ma la sua stella si è offuscata presso i lettori.

In questo mio piccolo ricordo vorrei approfittare anche per motivare a leggerlo chi non lo ha ancora fatto. Perché Del Giudice è uno scrittore fondamentale per capire il nostro mondo e per migliorare le relazioni umane.

Nel 2007 ero all’inaugurazione di una fondazione culturale veneziana. C’era anche Daniele, eravamo fra il pubblico, tutti in piedi ad ascoltare i discorsi delle autorità: il sindaco di Venezia, il presidente della Repubblica. Daniele era accanto a me, e a un certo punto mi sono accorto che qualcosa non andava. Canticchiava a labbra chiuse, mugolando pianissimo ma senza fermarsi mai, per tutto il tempo, anche mentre stava parlando Giorgio Napolitano.

Solo anni dopo, ripensandoci, mi sono reso conto che quello, probabilmente, era uno dei primi sintomi della malattia. Quel mugolio preannunciava il dilagare del silenzio, che a poco a poco gli avrebbe corroso tutte le parole. Una beffa atroce: proprio a uno scrittore come lui, che le terminologie, i lessici, le nomenclature le aveva attraversate tutte. E allora comincio da qui, dal primo dei tanti motivi per cui è importante leggerlo.

Le parole decisive

Daniele Del Giudice aveva capito che le parole sono decisive proprio in un tempo in cui sembra che a dominare siano le immagini. Non solo perché, com’è ormai evidente, oggi la rete mette in circolo miliardi di parole; ma perché le immagini non riescono a rappresentare l’invisibile che fonda la realtà. Questo, per esempio, emerge nel suo romanzo Atlante occidentale.

Un giovane scienziato fa ricerche presso l’acceleratore di particelle del Cern di Ginevra; quelle particelle non sono fotografabili, non producono immagine di sé: sono flussi di dati, di cifre, di interpretazioni, di descrizioni: non figure, ma linguaggio.

In quel romanzo c’è una minuscola scena che per me è rivelatrice: un operaio dipinge sulla fusoliera di un aeroplano il gigantesco logo di una compagnia aerea, usando delle grandi sagome alfabetiche. Una è la “i” maiuscola, la sua forma è un rettangolo vuoto. L’operaio a un certo punto la appoggia e ci passa attraverso: «Entrò nella I come in una porta», scrive Del Giudice. Così ha fatto lui: per stanare la realtà che sta oltre il visibile è entrato dentro le parole, come attraverso una soglia.

Il maestro di volo

A Venezia, nei primi anni Dieci, quando la malattia si è fatta palese, ho continuato a frequentarlo, con il mio amico e scrittore Roberto Ferrucci. Conversando al bar, Daniele provava a farsi capire mettendo insieme le poche parole che ancora riusciva a convocare.

Una volta cercava di dirci che, se gli avessero chiesto chi avrebbe voluto essere nella vita, fra tutti gli esseri umani lui avrebbe scelto il suo maestro di volo, quello che gli aveva insegnato a pilotare gli aeroplani (Del Giudice aveva una patente per velivoli leggeri): «Se mi chiedono… Ma tu, tu… chi vuoi essere… io dico: Bruno! Bruno…»

Quando lo incontravo per la strada, a Venezia, mi riconosceva, ma non si ricordava il mio nome, allora aveva delle tecniche tutte sue per salutarmi: «Eh… quest’uomo qui!», esclamava festosamente afferrandomi un gomito e scuotendolo con affetto. Lui che di solito era molto pacato, poco invadente, compensava con le risate e gli abbracci la difficoltà di comunicare a parole.

Anni dopo, quando andai a visitarlo nella clinica che lo ospitava, sapeva a malapena con chi aveva a che fare. Una volta, io e Roberto Ferrucci trovammo Massimo Cacciari seduto accanto a lui, su un tavolino di fòrmica, vicino a un frigorifero distributore di bibite e merendine, sotto la luce dei neon, nella sala comune deserta.

Cacciari gli aveva portato un libro fotografico di storia del Novecento, e con un atteggiamento amorevolmente austero lo sfogliava, mostrandogli le figure, indicandogli i volti. Daniele li guardava e, ogni tanto, pronunciava un nome: «Pasolini… Andreotti… Craxi!»

Lo avevo conosciuto nel 1985. Ero andato a Mestre ad ascoltare la presentazione di Atlante occidentale. Il pubblico rimase così ammaliato da tornare ad ascoltarlo anche il giorno dopo. Io intuii che quello scrittore trentaseienne (aveva quattordici anni più di me) poteva capirmi profondamente.

Mi feci coraggio, e durante la discussione con il pubblico alzai la mano e me ne uscii con una domanda sulla sua scrittura, sul suo modo speciale di far aderire visivamente le parole alle cose. Alla fine dell’incontro, fu lui ad avvicinarsi e a parlarmi per primo: «Tu scrivi, vero?», mi disse, spiazzandomi.

«Come fa a saperlo?»

«L’ho capito dalla domanda che mi hai fatto».

Fu molto sensibile, lesse i miei racconti inediti, mi invitò a casa sua, fece conoscere i miei primi scritti in casa editrice.

Dalle idee agli oggetti

Che cosa mi aveva colpito subito, in Del Giudice? Ecco il secondo fra i tanti motivi per leggerlo. Aveva capito che la forza motrice della nostra epoca si stava spostando dalla politica alla tecnologia, dalle idee agli oggetti.

L’estetica e le ideologie del Novecento avevano dato troppo credito al meccanismo del superamento: avanguardie artistiche, movimenti politici e mode intellettuali sempre nuove sostituivano quelle precedenti, in un avvicendarsi di opzioni e scelte di vita radicali, che ogni volta assumevano una posa palingenetica, una pretesa rivoluzionaria.

In realtà, quelle che un tempo sembravano scelte di vita incompatibili fra di loro si stavano trasformando in stili di vita che coabitavano nella società postmoderna: punk accanto a impiegati in giacca e cravatta, algidi artisti concettuali accanto a performer sanguinolenti, consumisti accanto a sovversivi, ciascuno con la sua brava nicchia di mercato.

Le uniche novità capaci di plasmare davvero la società e le vite dei singoli erano quelle tecniche. Del Giudice, come intellettuale e romanziere, aveva concentrato la sua attenzione sulle cose nuove, gli attrezzi inediti, le situazioni emergenti, le svolte tecnologiche del presente e del passato. I suoi scritti sul volo, sopra tutti lo stupendo Staccando l’ombra da terra, mostrano come in ogni novità tecnologica, anche effimera, c’è una promessa di utopia, una forma di vita possibile: «Ogni oggetto impone un portamento», scrive Del Giudice, passando in rassegna l’evoluzione dei biplani di legno e tela fino ai jet computerizzati e iperconnessi.

La ritrosia a pubblicare

Mi ricordo un suo appassionato intervento alla fine del 2001, dopo l’attentato alle Torri gemelle di New York. Eravamo seduti intorno al leggendario tavolo ovale, nella sede della casa editrice Einaudi, in una delle periodiche riunioni dei consulenti.

Per spiegare come funzionano le guerre asimmetriche, in cui piccoli gruppi terroristici possono mettere in crisi grandi eserciti organizzati, con le sue conoscenze aeronautiche Daniele ipotizzò quanto potesse essere costata la preparazione di un attentato simile: parlando ai filologi classici, agli storici della filosofia, agli editor riuniti in quella stanza, disse provocatoriamente che facendo una colletta di un migliaio di euro a testa avremmo potuto organizzarlo anche noi.

Quando tornavamo da Torino in treno da quelle riunioni, io spesso toccavo il tasto della sua ritrosia a pubblicare: «Hai un sacco di saggi sparsi che sarebbe importante raccogliere. Guarda che ne verrebbe fuori un libro formativo, per i giovani, per tutti. Sarebbe importante farlo!»

«Dici?», mi rispondeva. «Ci penserò». Ma poi non lo faceva. Ci ha pensato la sua casa editrice, quando lui non era più consapevole di sé. Ne è uscito un libro bellissimo, In questa luce; e c’è ancora tanto materiale da recuperare.

Con lui non si parlava di vita privata, ma di scoperte culturali ed esistenziali. E questo è il terzo fra i tanti motivi per leggerlo: le sue storie mettono in scena personaggi che non si scambiano segreti o esperienze scabrose, perché si infervorano parlando delle cose che li appassionano: la fisica subatomica, gli aeroplani, di che cosa è fatta la polvere, come si costruisce una fortezza militare o un cimitero, come funziona l’orecchio assoluto, che cos’è il daltonismo… Le relazioni più proficue fra gli esseri umani non sono quelle dirette, come le confidenze personali, ma quelle che comunicano attraverso una triangolazione, mettendo in comune una terza cosa nello spazio fra “io” e “tu”.

In Lo stadio di Wimbledon, il suo romanzo d’esordio, il giovane protagonista fa un’inchiesta a Trieste per capire come mai uno dei letterati più geniali del Novecento, Bobi Bazlen, non ha mai scritto un romanzo. Lo chiede a tutte le persone ormai anziane che l’avevano conosciuto.

In questo caso, la passione che viene messa in comune fra i personaggi è quella per la letteratura. Ma attraverso di essa questo splendido romanzo parla di amore e di amicizia in maniera molto più profonda e toccante di quanto potrebbe farlo una narrazione sentimentale. Descrivendo un cruscotto elettronico, una stazione ferroviaria, un radar o uno schermo retroilluminato, Daniele Del Giudice non si è mai stancato di capire che cos’è che produce ciò che siamo abituati a chiamare umanità.

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