Qualche settimana fa stavo rileggendo Lo stadio di Wimbledon: è una vecchia copia che ho in casa, un tascabile Einaudi sottile, di quelli ancora con la costa color canna da zucchero.

Lo comprai verso la fine degli anni Novanta quando, studente, scoprii Daniele Del Giudice al primo mitico corso di Letterature comparate di Franco Marenco, a Torino. Dico mitico perché eravamo in pochi a frequentarlo, eravamo tutti appassionati di letteratura, forse troppo, da lì uscirono poi scrittori, poeti, studiosi, e ai tempi gli inverni erano più rigidi: ma la verità è che mitico lo fu soprattutto per me, non da ultimo perché mi fece scoprire Del Giudice.

Rileggendo Lo stadio ogni cinque o sei anni, sempre sulla stessa copia, ci ritrovo le sottolineature che nel corso del tempo si sono sedimentate sulla pagina: quelle di uno stesso anno le riconosco dalla stessa matita, dalla stessa penna con cui sono tracciate.

Lo racconto non perché abbia una qualche importanza di per sé, ma perché vi riconosco una cosa che da qualche tempo andavo notando: quanto Daniele Del Giudice fosse uno scrittore vivo. E, in quanto vivo, proprio perché vivo, cercato e riconosciuto dai giovani: non necessariamente per età, ma per la disposizione, che è propria della gioventù, di farsi trasformare, influenzare, di cambiare il modo di osservare il mondo, di starci in mezzo.

La disponibilità a mutare la maniera con cui misuriamo la distanza tra le cose, e tra le cose e l’io. Questo faceva, questo fa Del Giudice in chi lo legge per la prima volta e poi ogni volta che lo si rilegge.

L’ha fatto per me e lo fa per i tanti che nel corso degli anni mi dicono di averlo letto e amato: coetanei e più giovani per i quali Del Giudice è uno scrittore attualissimo, uno di quelli che ti cambia lo sguardo, l’intensità con cui osservi il mondo, ma anche uno scrittore-cassetta degli attrezzi da cui tirare fuori, in tempi (biografici e storici) fragili e incerti, una postura, un mestiere, un’etica.

Perché è così? Perché uno scrittore lontano da mode e “tendenze”, la cui opera, negli ultimi vent’anni, si era giocoforza rarefatta, oggetto di un culto fortissimo ma certo non popolare, era anche quello a cui molti guardavano come maestro segreto, anzi come un orizzonte mobile verso cui tendere?

La staffetta con Calvino

Lo stadio di Wimbledon è il primo romanzo di Del Giudice. Pubblicato nel 1983 nella collana dei Nuovi Coralli di Einaudi, viene presentato da una quarta di copertina di Italo Calvino: «Questo romanzo racconta d’un giovane che si interroga su un certo personaggio, a una quindicina d’anni dalla sua morte; e va a ricercarne gli amici e le amiche di gioventù, ora molto anziani».

Il «certo personaggio» è Roberto Bazlen, detto Bobi, «una figura originale nella vita letteraria italiana» (sempre Calvino): esemplare leggendario di “lettore assoluto”, amico di Svevo, Saba, Montale, intellettuale raffinato, eccentrico, cosmopolita prima che quest’aggettivo diventasse abusato, consulente di varie casa editrici (Einaudi stessa, Astrolabio, le olivettiane Edizioni di Comunità) prima di essere, negli ultimi anni, ispiratore e colonna portante dell’appena fondata Adelphi di Luciano Foà e Roberto Olivetti (siamo nel 1962, tra i giovani adelphiani c’è ovviamente Roberto Calasso che a Bazlen ha dedicato l’ultimo libro, Bobi, uscito proprio il giorno della sua morte lo scorso 26 luglio).

Quello che affascina Del Giudice è che Bazlen, pur avendone tutte le possibilità, di fatto non scrisse praticamente nulla (solo note a pie’ di pagina, diceva Bazlen della sua produzione, più che altro lettere e pareri editoriali): «È la scelta tra “scrivere” e “non scrivere” che il giovane vuol risolvere?» ci si chiede in quarta.

Ma anche tra saper scrivere e saper vivere, tra vita, con la sua dose di sofferenza, e rappresentazione. Quasi all’inizio della sua quête, il protagonista incontra un’ormai anziana amica di Bazlen che dice: «Bisogna tenere i libri distinti dai dolori. Capisce cosa voglio dire?».

I libri e i dolori

La ricerca delle tracce e delle testimonianze di Bazlen, porterà il narratore in un viaggio da Trieste a Londra. «A un certo punto del suo intinerario» continua Calvino «il giovane ha fatto la sua scelta: cercherà di rappresentare le persone e le cose sulla pagina, non perché l’opera conta più della vita, ma perché solo dedicando tutta la propria attenzione all’oggetto, un un’appassionata relazione col mondo delle cose, potrà definire in negativo il nocciolo irriducibile della soggettività, cioè se stesso».

Ecco un primo elemento, mi sembra, della sua costante attualità: Del Giudice si è sempre chiesto, fin dal suo primo romanzo, chi è “io”, chi sono io, come fare i conti con quel fantasma fragile ma preziosissimo che chiamiamo soggettività nel momento in cui (ed è un momento di cui i giovani fanno, per definizione, dolorosa esperienza) è gettato nel mondo delle cose e degli altri soggetti.

Come posso conoscerlo e rappresentarlo senza tradirlo, snaturarlo, manipolarlo? «Talvolta lo scrittore può assomigliare a un viaggiatore munito di carta geografica», scrive in uno dei saggi raccolti in In questa luce (Einaudi 2013), «il quale ricava la propria posizione sottraendola da tutto il resto: se questo è il paese, questo è il fiume, questi i campi, queste le case, e se avrò descritto con esattezza ogni cosa, allora io non posso essere che qui: “io” non è altro che il punto mutevole, risultato di una relazione con tutti gli altri, sul quale di volta in volta metto il dito».

La luce e le cose

Ma non solo. Del Giudice aveva intuito che quel mondo in cui il soggetto si trovava a vivere stava cambiando, stava mutando in un modo che solo ora iniziamo a vedere davvero, sbalestrati e perplessi. Il suo secondo romanzo è Atlante occidentale, esce nel 1985 sempre per Einaudi. Protagonisti sono Pietro Brahe, un fisico ricercatore al Cern di Ginevra, e Ira Epstein un famoso e anziano scrittore.

«Lei disse che gli oggetti stavano sparendo, ed è vero», si rivolge così il fisico al vecchio scrittore: «Ho riflettuto in questi mesi, e ho cercato di capire che cosa voleva dire. Un tavolo ha le sue leggi, da quelle per cui sta in piedi a quelle di come si sta a tavola, che sono perfettamente valide, tuttora. Solo che, come dire? Le parti di cui è fatto il tavolo sotto una certa soglia, hanno leggi del tutto diverse da quelle del tavolo stesso. Gli oggetti che già ci sono, che ci saranno, saranno fatti direttamente di quelle parti lì».

Il mondo in cui siamo

In Atlante, Del Giudice capisce, con una radicalità intellettuale altissima, il mondo in cui siamo oggi. «Le nostre cose, gli oggetti che usiamo, sono già oggetti di luce, sempre più fatti di luce e sempre meno di materia, o meglio fatti di quella materia primigenia che è sempre stata considerata la luce; oggetti che chiederanno, e già chiedono, una diverse percezione di noi e del mondo, un diverso portamento del corpo. Di luce le nostre cose, di luce le nostre armi, di luce le nostre comunicazioni».

Del Giudice ha saputo vedere prima di tutti questa luce di cui sono oggi fatte le cose e i rapporti, una luce che non acceca ma che neanche illumina, una luce che non salva né condanna, ma che certo ci mette in comunicazione gli uni con gli altri, e in questo contatto ci permette di registrare qualcosa.

«E adesso?» si conclude così Atlante occidentale, con questo scambio tra Epstein e Brahe, nel frattempo diventati amici: «“Adesso dovrebbe cominciare una storia nuova”. “E questa?” “Finita”. “Finita finita?” “Finita finita”. “La scriverà qualcuno?” “Non so, penso di no. L’importante non era scriverla, l’importante era provarne un sentimento”».

La sua produzione proseguirà con i racconti di Staccando l’ombra da terra (1994) e Mania (1997), in cui tornano la passione per il volo, l’attenzione al dettaglio meccanico, al motore e alla macchina come manifestazione del lavoro dell’uomo, della sua dignità e intelligenza.

Ma sono pagine, come anche nell’ultimo Orizzonte mobile (2009, tutti per Einaudi), reportage narrativo di un viaggio in Antartide, in cui torna il suo nitore stilistico, il controllo perfetto e allo stesso tempo intensamente emotivo della lingue e soprattutto della frase: Del Giudice era uno di quegli scrittori che faceva della sintassi lo strumento privilegiato della sua arte.

Il dominio sul tempo e i punti di vista che la sintassi concede allo scrittore è il modo che Del Giudice aveva per restituire sulla pagina l’intensità etica del suo sguardo.

Daniele Del Giudice è morto a Venezia a 72 anni dopo una malattia che da tempo l’aveva ridotto al silenzio. Ma per queste e tante altre ragioni resta uno degli scrittori più vivi della letteratura italiana di oggi, quello a cui tornare sempre per capire dove siamo, domandarci chi siamo. Osservare la luce in cui siamo immersi.

Una lezione però mi è difficile fare mia, almeno oggi, almeno in questo momento: certo che a volte è davvero difficile tenere i libri distinti dai dolori.

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