È in sala uno dei film più belli dell’ultimo festival di Cannes: La chimera, un viaggio tra sogno e realtà che ci catapulta negli spregiudicati anni 80, in un mondo rurale contaminato da tombaroli da commedia dell’arte affamati di tesori etruschi. Un’opera intrisa di realismo magico che illumina mondi e personaggi ormai invisibili al cinema tra cui un rabdomante inglese stazzonato dal cuore infranto (Josh O’Connor), una nobile decaduta (Isabella Rossellini) e Italia, una ragazza alla pari stonata che sogna il bel canto (Carol Duarte). Un'umanità ai margini della società in una favola moderna che riflette lo sguardo unico, poetico e sovversivo di una regista come Alice Rohrwacher che il prestigioso Centre Georges Pompidou ha deciso di omaggiare con una retrospettiva a Parigi da venerdì 1° dicembre.

Che effetto fa avere una retrospettiva al centro Pompidou a soli 41 anni?
È un emozione fortissima. A 16 anni suonavo la fisarmonica davanti a Beaubourg, e poi passavo col cappello. Tornarci ora con una retrospettiva è incredibile. Ci saranno tutti i mei film, ma anche una mostra: Il Bar Luna, che ho allestito insieme alla compagnia teatrale Muta Imago. Desideravo coinvolgere “stranieri”, cioè persone che vengono da altri mondi, come il teatro, e perché no, anche un fiorista come Thierry Boutémy, reso famoso dal film Maria Antonietta di Sofia Coppola. La mostra sarà un grande viaggio tra l’aldiquà e l’aldilà.

Essere liberi di poter contaminare i generi artistici è quasi un lusso oggi.
Quello che faccio mi dà la possibilità di scoprire e di conoscere l’altro e quindi di capire meglio me stessa. Mi mantiene curiosa, viva e desiderosa anche di scombinare le carte in tavola, soprattutto in un'epoca che tende a etichettare e dividere tutto. Diavolo, in greco “diabàllo”, vuol dire separare, ma bisogna andare contro questo istinto diabolico, dobbiamo unire, rompere le frontiere, ed è quello che cerco di fare continuamente nella mia vita e nel mio lavoro, anche se è rischioso.

È rischioso ma è solo così che si creano prototipi, cosa sempre più rara in un’industria così formattata e, forse, minacciata dalla famigerata intelligenza artificiale.
L’intelligenza artificiale potrebbe anche essere un modo di liberare i nostri cervelli dalla schiavitù della narrazione, permettendoci di esplorare altri sentieri e nuovi mondi. Io ci vedo un lato molto positivo perché arriverà il momento in cui l'intelligenza artificiale si specializzerà nelle classiche sceneggiature banali di puro intrattenimento e lascerà agli esseri umani spazio per la poesia, l’avventura in quei territori artistici che nessuna intelligenza artificiale può raggiungere… Non sono preoccupata perché non riuscirà mai ad acchiappare me o molti altri registi.

Lei è sempre stata un po’ inafferrabile, cresciuta nelle campagne umbre, un padre tedesco. Nel suo cinema c’è sempre il tema della ricerca di radici. Da piccola si sentiva un outsider?
No, non mi sono mai sentita un outsider. In realtà cercare le nostre radici vuol dire uscire dall’individualità per trovare un legame collettivo, una storia più grande di noi di cui facciamo parte. Come in una foresta, se scaviamo sotto terra, scopriamo che le radici degli alberi sono collegate tra di loro.

La dimensione collettiva è molto presente nel suo film. È una volontà politica?
Il film è politico perché racconta una generazione di tombaroli figli di un'educazione materialistica. Sono cresciuti in un mondo dove non c'è più niente di sacro e in cui tutto è merce. Non c'è più niente di segreto, di misterioso e di invisibile perché l'invisibile non esiste più nella nostra società. Se oggi non abbiamo scrupoli nel profanare la natura e i corpi delle persone è perché siamo figli di questo materialismo.

Torniamo al suo passato. Inizialmente per lei il cinema era una chimera?
Per me il cinema è stato una sorpresa. Non potevo desiderarlo perché lo conoscevo troppo poco. Forse tutto ciò che compone il cinema, e che mi appassiona, mi ha portato a fare film: la musica, la pittura, la fiaba, l’amore per gli esseri umani, la contemplazione del paesaggio, ma anche l’assurdità di ciò che ci rende umani…

Qual è la prima volta che è stata al cinema?
La prima visione collettiva di film è iniziata da piccola in biblioteca, guardavamo cartoni animati, film per bambini su un televisore. Sono cresciuta in un posto dove era difficile accedere al cinema, ora la situazione è pure peggiorata: prima riuscivi a trovare una sala nel raggio di 40 km, ora niente. Comunque, la mia prima volta al cinema è stata con Senti chi parla, un film in cui c’erano neonati che parlavano, succedevano cose assurde: profezie, sogni, inseguimenti. In realtà era un’americanata, ma di quelle belle.

Il film con John Travolta! Una commedia che pare inverosimile possa aver influenzato  il suo cinema, giusto?
Quel film è legato alla mia prima esperienza reale al cinema, poi è chiaro, i film che durante la mia adolescenza mi hanno fatto capire che il cinema poteva anche avvicinarsi alla poesia sono altri, come A bout de souffle di Godard. Non ci capii niente, ma rimasi travolta.

Chi le ha trasmesso l’amore per l’arte e la natura, suo padre?
Mio padre innanzitutto è un femminista. Dall'indipendenza e dalla libertà che io e mia sorella Alba abbiamo acquistato nella vita, si capisce che avere un padre femminista non fa male alla salute. Ed è sicuramente un visionario, che esprime la sua integrità nel rapporto con la natura - è agricoltore e apicultore - e forse io provo a trasferire la stessa integrità nel cinema. Un'altra eredità di mio padre è l'ossessione per due film che guardava di continuo in VHS e che conosco a memoria: Novecento di Bertolucci e L’albero degli zoccoli di Olmi. Rivedere gli stessi film è una grande scuola perché siamo abituati a una cultura del consumo, anche per le immagini, siamo sempre più schiavi di visioni usa e getta. Per questo cerco di fare film in cui si possa scoprire ogni volta qualcosa di nuovo e di diverso.

ll lavoro sulle immagini che ha fatto con la sua direttrice della fotografia Helen Louvart è straordinario. La Chimera sembra quasi materico. Perché per lei è così importante la pellicola? C’è qualcosa di sciatto nel girare in digitale?
No, non lo direi mai! Anzi c’è gente che può addirittura pensare il contrario. Per me la pellicola era una scelta naturale perché questo è un film sull'archeologia ed era molto importante mantenere una dimensione quasi tattile dell’immagine, usando un supporto che è nato con il cinema. Quello che mi piace del lavoro in pellicola è che non si può controllare fino in fondo come il digitale e questo crea una tensione che fa bene al film.

Il nuovo mantra è “cinema al femminile”. Lei che sfugge a ogni etichetta, non trova ghettizzante catalogare gli artisti secondo il loro genere?
Il punto di arrivo è un cinema e un mondo in cui non ci sarà più il bisogno di definirsi con l’identità di genere, ma finché la discriminazione è reale, è bene separare il cinema delle donne e dei maschi in modo che anche gli uomini debbano affrontare la stessa autoanalisi che siamo state costrette a fare con le eterne domande sull'identità femminile.

Che tipo di discriminazione ha subito quando ha iniziato a fare questo mestiere?
Penso che ci sia discriminazione innanzitutto nell’aspettativa, nello sguardo “drogato” della stampa e del pubblico. Il femminile, come il maschile, è un concetto molto più largo e meno stereotipato di quello che i critici cercano di veicolare. Quando si va a vedere il film di una regista, viene sempre sottolineato che si tratta di “cinema al femminile”.

Se il suo film La chimera diventasse un classico che cosa vorrebbe trasmettere alle future generazioni?
Questo film è veramente dedicato ai ragazzi, agli archeologi di domani nel senso profondo del termine. Vorrei trasmettere l’idea che il cinema si può raccontare in tanti modi diversi, che si può rispettare l'immagine e avere densità pur mantenendo una leggerezza. Spero insomma che questo possa diventare, se non un film compiuto, almeno una cava di idee.

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