Tra i protagonisti assoluti della guerra di Troia figura un personaggio che non si può contare né tra gli eroi né tra gli dèi, un personaggio minerale e soprannaturale all’innesco della trama tessuta da Omero: l’armatura di Achille.

Nel poema è essa stessa un poema, con quello scudo su cui si stagliano, forgiate da Efesto, storie che a malapena la lingua umana può raccontare con altrettanta evidenza, con altrettanta energia. Un formidabile continuatore di Omero, Quinto di Smirne, insistette su altri incantevoli e micidiali complementi militari: l’elmo, cesellato con la scena di Zeus che folgora i Titani, e la lancia che Patroclo, pur vestendo l’armatura di Achille, non seppe sollevare, destinandola a trovare il petto di Ettore per vendetta dalla mano del titolare.

Ogni armatura ha un suo titolare. O una sua titolare, come ci mostrano Bradamante, paladina di re Carlo nei romanzi di cavalleria, e Andromeda, finalmente donna nell’ultima iterazione dei Cavalieri dello zodiaco uscita su Netflix poco prima della pandemia. Pur rispondendo a un cavaliere e aderendo al suo corpo, tuttavia, le armature tendono anche ad avere una vita propria, una propria volontà che non coincide con quella dei loro titolari, vedi Achille, appunto.

Le armature agiscono

In guerra, le armature raccontano di altre guerre e scombussolano il racconto della guerra, conducendo i loro titolari dove decidono loro. Agiscono. Sono animate dalla stessa vitalità che Angela Lansbury, quando i nazisti sbarcano in Inghilterra in Pomi d’ottone e manici di scopa, ispira nelle ferraglie medievali di un museo locale a colpi di musica e stregoneria. È in tempo di pace che tali insegne rischiano di non rassegnarsi alla loro un po’ sinistra obsolescenza.

Qualche giorno fa Michela Murgia ha parlato in televisione del fatto che le divise militari, in tempo di pace, non la rassicurano. Sono d’accordo con lei, e sono sconvolto dalle reazioni che il suo sentimento (prima ancora del suo ragionamento, cristallino, che pure condivido per come lo ha articolato sui suoi canali social e in un’intervista alla Stampa) ha suscitato.

Murgia indica l’armatura e molti vedono Achille, come Ettore ed Euforbo. Non che il generale in questione, giustamente decorato e insigne, non sia il titolare della propria divisa, o che in quella divisa non si aggiri un uomo competente e di valore. La questione è che, come sa chiunque da ragazzino abbia letto Il cavaliere inesistente, armatura e cavaliere non sono la stessa persona.

Sempre su Netflix si trova da qualche anno la serie completa di quello che forse è stato il più grande cartone animato mai realizzato, di cui i recenti baracconi hollywoodiani di Godzilla vs. Kong e Pacific Rim sono scialbe imitazioni: Neon Genesis Evangelion.

In Evangelion, alcuni adolescenti giapponesi sono inoculati nel midollo di sgargianti giganti corazzati che diventano la loro armatura, proteggendoli dall’apocalisse e permettendogli di combatterla da paladini dell’umanità.

Si scopre però (mi si perdoni lo spoiler) che quei giganti non sono vuoti gusci robotici ma creature senzienti, abitate dall’intelligenza delle madri scomparse dei loro piloti cavalieri. Capita che questi uteri armati rifiutino di obbedire ai comandi dei loro titolari, che facciano di testa loro. Come le armi di Achille (che Quinto e Virgilio affidano a suo figlio Neottolemo perché la storia continui) non vogliono lasciare il campo di battaglia.

E come biasimarli? A mettersi nei loro panni, nei panni delle armature, il campo di battaglia abbraccia l’unico orizzonte vitale. Lasciato quello, tornano a essere cose. Botticelli, nel capolavoro pittorico che architettò col Poliziano su Marte e Venere, ci mostra che, quando la guerra dorme, le armature decadono immediatamente in inanimati balocchi per lo spasso di faunetti ubriachi.

Chi reagisce male alle parole di Murgia sul fatto che solo una classe dirigente in bancarotta immaginativa può affidare il racconto della pandemia alla retorica bellica non ha evidentemente letto il suo Istruzioni per diventare fascisti.

Se proprio non si sopporta di dar credito ai profeti in patria suggerirei allora un’analoga lettura: l’ultimo libro di Ruth Ben-Ghiat, intitolato Strongmen. Ben-Ghiat (che come Murgia tende a indispettire l’opinione pubblica italiana da diversi anni) è la più grande studiosa di fascismo vivente. Il suo libro decifra Donald Trump, e il modo in cui la sua figura risponde a un bricolage di strategie che il libro definisce «authoritarian playbook». 

Per leggere Trump, la grammatica democratica è insufficiente: occorre imparare il codice alternativo che l’autoritarismo ha costruito attraverso la tarda modernità, bilanciando il marziale e la sua intrinseca fragilità; alcuni maschilissimi corpi di capo (con le loro posture e le loro falle) e i simboli che li corazzano e li proteggono – metaforicamente e non. Le due cose non coincidono.

Dominare l’uniforme

Le uniformi, come le armature, raccontano le loro storie, hanno le loro autonome intenzioni. Uno che alle uniformi ci teneva parecchio, Gabriele D’Annunzio, le custodiva in un armadio istoriato con elaborazioni moderne d’imprese barocche che ritraevano la natura profonda, addirittura segreta, della sua identità personale.

Nella stanza in cui pianificava di morire, come in effetti avvenne, intendeva farsi letteralmente contenitore delle proprie divise, lasciarsi indossare da loro per dominarle. Un sogno impossibile, come ci insegnano numerosi supereroi: da Spider-man, che riesce però a separarsi dalla potente tuta nera quando essa si rivela essere il simbionte alieno Venom, a Batman, che invece non sa concepire una vera pace per Gotham perché, in fondo, l’armatura di cavaliere oscuro ha preso il sopravvento.

L’intero universo cinematografico Marvel è costruito sul percorso psico-tecnologico che porta Ironman a capire di dover proteggere il mondo non con la sua armatura ma dalla sua armatura, antagonista nell’atto centrale di tutta la saga. Non solo non può controllarla né coincidere con essa (come del resto Trump non può somigliare ai suoi sostenitori ultrareligiosi e straccioni né davvero governarne gli impulsi distruttivi) ma non può neanche programmarla per mantenere la pace.

In assenza di minacce, malgrado il suo titolare sia il più eroico dei martiri, l’armatura si fa essa stessa minaccia. Non si può chiedere alle armature, alle divise, ai mantelli degli eroi di interpretare la pace. Sono destinati a fraintenderla.

Lo sconcerto di Astianatte

Ci sono diverse ragioni per cui, alla fine, Ettore è un eroe migliore di Achille. La mia preferita è il passaggio del libro sesto dell’Iliade che si svolge sotto le porte Scee, il congedo dalla moglie Andromaca, dal figlio Astianatte e dalla vita. Quando Ettore, in questa parentesi assolutamente privata e pacifica, tende le mani per dire addio, il suo bambino si spaventa, non lo riconosce.

A fare di Ettore un eroe migliore di Batman è la sua capacità di capire che Astianatte ha ragione di temerlo perché, pur essendo il suo affettuoso babbo familiare, ha dimenticato di togliersi, per salutarlo, l’armatura. Depone dunque l’elmo e rassicura il bimbo, erige una crisalide di pace nel mezzo della guerra per eccellenza.

A sentire i greci Astianatte fu poi ucciso da Neottolemo, che indossava l’armatura del padre Achille. Mi piace di più la versione del nostro Boiardo, il quale rivela, nell’Orlando innamorato, che Andromaca aveva in realtà sostituito il figlio di Ettore con un altro bambino. Arrivato in Sicilia con l’aiuto di un amico del padre, Astianatte avrebbe poi figliato con la regina di Siracusa, avviando una stirpe destinata a generare Ruggiero, il cavaliere saraceno cantato da Ariosto.

Nell’Orlando furioso la più fantastica risorsa di Ruggiero (ippogrifo a parte) è uno scudo, incantato dal mago Atlante, che acceca e stordisce qualunque nemico incontri chi lo brandisce. Ruggiero potrebbe adoperarlo per sgominare interi eserciti ma, degno erede del suo antenato troiano, sa quando è bene deporre le armi.

Un vero cavaliere come lui non può che tenere tale scudo coperto, se non quando l’avversario è un mostro marino o un villano indegno della sua spada, e alla fine se ne libera gettandolo in un pozzo.

Dalla Roma di Virgilio alla Ferrara di Boiardo e Ariosto, l’epica ha immaginato, per questo paese, una genealogia di militari ansiosi di spogliarsi della propria armatura, rispettandone (addirittura temendone) l’estraneità. Un popolo di Spider-man, non di Batman; di eroi che non sono condottieri.

Per fortuna Michela Murgia ci riattiva la memoria emotiva dello sconcerto di Astianatte, dell’imbarazzo di Ruggiero. Dello stupore di Sofronia e Torrismondo quando, alla fine de Il cavaliere inesistente, constatano che gli abitanti del loro pacifico villaggio si sono liberati dei razziatori senza bisogno di alcun paladino in armatura.

           

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