Ricordo di aver visto per la prima volta Vitaliano Trevisan nel 2002, in una trasmissione televisiva di Serena Dandini. Alto, vestito di nero, sembrava mettere a disagio la conduttrice con la sua sola presenza e per il fatto che dava l’impressione di pesare le parole: pensava prima di parlare, una cosa che in televisione di norma non accade e quando accade spezza immediatamente il tono superficiale tipico di quel mezzo di comunicazione.

Si crea un effetto piuttosto curioso; appena qualcuno sembra davvero pensare a quello che dice e poi dire quello che davvero pensa, l’automatismo dei ruoli e della lingua si interrompe: non c’è più lo scrittore che interpreta il personaggio dello scrittore secondo le aspettative degli autori televisivi, del pubblico e più in generale delle convenzioni del momento, bensì un essere umano, in questo caso un artista, che dice quello che ha in mente.

Anche se sembra la cosa più semplice del mondo, non è proprio così: ad esempio se si fa solo finta di sembrare pensierosi, cosa molto più frequente, si rimane in pieno nella caricatura e l’effetto è ancora più grottesco.

Nei filmati di vecchie interviste a scrittori, registi e artisti, questi momenti di verità sono ancora piuttosto comuni, a partire dagli anni Ottanta diventano sempre più rari e oggi non accadono praticamente più.

La comunicazione ha vinto sulla parola e la comunicazione è teatrino efficiente, non ha nulla a che vedere con la realtà delle cose, né con la sincerità: serve a vendere libri, profumi, cucine o automobili, serve a spostare voti, agitare, mobilitare, sensibilizzare, tranquillizzare, manipolare. Il destinatario della comunicazione è sempre il mezzo, mai il fine; la comunicazione è parola strumentale.

I quindicimila passi

Purtroppo il filmato dell’intervista a Trevisan non si trova in streaming ma nonostante siano passati vent’anni ne conservo nella memoria alcuni passaggi proprio perché già allora mi colpì come anomala.

Serena Dandini insisteva sul fatto che quello accanto a lei fosse uno scrittore pubblicato da un’importante casa editrice ma aveva fatto anche tanti altri lavori, compreso il lattoniere e il muratore.

Venne detto che ormai a fare quest’ultimo lavoro erano soprattutto immigrati e che i capicantiere per primi si stupivano quando Trevisan si proponeva e si scopriva che non solo era italiano, ma proprio veneto (non meridionale, insomma).

Io allora leggevo soprattutto letteratura americana e forse per questo quell’estrazione sociale non mi sembra un fatto così rilevante come pareva invece essere agli occhi della presentatrice.

Il personaggio però era interessante, s’intuiva come fosse a suo modo colto e si avvertiva in lui anche un’intensità non comune, comprai perciò I quindicimila passi.

Non avevo mai letto nulla del genere prima – non conoscevo Thomas Bernhard, ovvero una delle due grandi ispirazioni di Trevisan, assieme a Samuel Beckett. Il libro mi sembrò, ancora una volta, anomalo, a tratti claustrofobico, e bello.

Parlare di Trevisan porta inevitabilmente con sé un rischio, quello di sminuirlo come autore sottolineandone troppo le origini, dipingendolo, cioè, come qualcuno che è emerso nonostante condizioni di partenza svantaggiate rispetto a quelle della grande maggioranza degli scrittori italiani e che quindi merita una certa indulgenza.

Non è da escludere che il primo momento di vera notorietà della sua carriera, destinato poi a rimanere il principale, sia avvenuto anche in virtù del bonario interesse che vent’anni fa il mondo della cultura di sinistra provava ancora nei confronti dei lavoratori. Tuttavia va subito sgombrato il campo: Trevisan è stato un grande scrittore, uno dei migliori autori italiani degli ultimi decenni. Punto.

L’origine

Chiarito questo, è vero che le origini sociali nelle opere di Trevisan hanno sempre avuto un peso, contribuivano a dare forma a un determinato modo di vedere il mondo.

In Works, il suo capolavoro, scriveva «l’origine è un vestito che uno non smette mai» e significativamente lo diceva non parlando dei suoi rapporti con persone più agiate, tema che pure ha trattato, ma chiedendosi come mai, dopo tanti anni di lavori saltuari – eseguiti e cambiati l’uno con l’altro conservando sempre in testa il chiaro rifiuto di «impiantarsi» – non gli sia mai venuto in mente di lasciarsi scivolare nella povertà più profonda, diventare cioè «un barbone» e smetterla con tutti quegli sforzi per avere una busta paga.

La risposta la trova nelle origini, in una sorta di dovere esistenziale al lavoro e a un certo tipo di dignità a esso connessa.

Per quanto siano rari gli scrittori di origini proletaria, Trevisan non era però l’unico, neppure in Italia: quello che lo contraddistingueva ulteriormente, oltre alle abilità letterarie, era la vena anarchica, solitaria, il coltivare un’idea di integrità orientata a una notevole intransigenza prima di tutto verso sé stessi «è bene dubitare di sé stessi sempre, amen».

Il suo suicidio potrebbe farne oggetto di un culto agiografico sul genere artista maledetto, ma non andrebbe dimenticato che le sue pagine, severe con il mondo, sono spesso ancora più severe nei confronti di Trevisan stesso.

Come scrittore, sebbene si trovasse in una posizione in cui quella sarebbe stata per certi versi la scelta più comoda, non si è adagiato nella posa e questo credo sia decisivo per capire la portata della sua opera.

«Così fan tutti… eppure, c’è qualcosa in me che non va, un’allergia, un’intolleranza al concetto; e poi fanculo!, così fa chi può e vuole, che sarà pure la stragrande maggioranza, e tutti sappiamo quanto conti la maggioranza in questa putrescente democrazia, ma non è tutti, qualcuno resta fuori; e non per questo quel qualcuno dovrà aspettarsi qualcosa in cambio, semmai il contrario; né aversene a far vanto, o in alcun modo lamentarsene. Resta il diritto, per chi resta fuori, di non essere compreso in quel tutti».

Il problema qui è che il diritto a non essere compresi nel «tutti» è uno dei diritti che più difficilmente vengono accordati: anche se non ci si vanta e non ci si lamenta, si dà comunque fastidio anche solo comportandosi diversamente, mostrando cioè senza volerlo che delle alternative esisterebbero.

La bestia umana è questo, per quanto ciò risulti deprimente. Trevisan, come indicano già i suoi numi tutelari Bernhard e Beckett, era un autore di respiro internazionale – in Francia è tradotto da Gallimard –, narrava soprattutto la sua provincia, Vicenza, e il Veneto, ma era lontano dalla media letteraria italiana, non era impelagato in questioni di comodo, in narrazioni retoriche, conosceva al contrario momenti molto ambiziosi, soprattutto non taceva di fronte a nulla anche quando questo gli costava molto, psicologicamente prima ancora che professionalmente.

L’Entità

In Works è memorabile il conflitto di Trevisan con «l’Entità», un riconoscibilissimo e potente attore di teatro e di cinema che decide di mettere in scena una sua pièce.

Ne viene fuori uno scontro fra mondi, dove l’autore assiste alle follie, agli egocentrismi, alle miserie umane e alle pastette del mondo dello spettacolo e, alla fine della discussione con cui i due si separano malamente, riappaiono su Trevisan proprio quei panni che non si svestono mai: «Tolsi la mano dalla tasca, e nella mano avevo il coltello francese (…) un Laguiole con manico in corno intarsiato, affilatissima lama da carne ben oltre le cinque dita, e in più, un pungiglione estraibile lungo altrettanto. Per tutto il tempo della sceneggiata, senza averne coscienza, avevo tenuto la mano in tasca, e nella mano il coltello. Curioso, pensavo, in una situazione del genere ci si aspetterebbe che fosse il napoletano, non il veneto, ad avere un coltello in tasca. Ma che cos’è l’Italia, pensai alzandomi e incamminandomi verso il Pantheon, se non un conglomerato di luoghi comuni. Prenderli a martellate, è uno dei miei compiti».

Il motivo del contendere in questo caso era soprattutto il trattamento che l’Entità, nei panni di regista teatrale, aveva riservato alla vita dell’autore contenuta nel testo da rappresentare, cercando di ricondurla a quegli stereotipi attraverso i quali il mondo culturale di Roma e Milano spesso guarda al resto del paese.

«Appena X lesse i testi, subito immaginò i tre operai-magazzinieri in tuta blu — alla Cipputi per così dire, con tutto quel che segue, dimostrando così di avere la classica immagine dell’operaio che sembra essere fossilizzata in tutte le teste borghesi e piccolo-borghesi non solo italiane. Non fu facile spiegargli che questi giovani “operai”, che rifiutavano anche solo l’idea di indossare le scarpe antinfortunistica fornite dalla ditta perché gli facevano schifo esteticamente, che si facevano tutti almeno un paio di lampade la settimana, che si indebitavano per comprarsi una Golf Tdi del cazzo, o per passare un paio di settimane in uno spermodromo caraibico, che passavano i fine settimana tra discoteche e after hours, spesso e volentieri impasticcati, la cui stragrande maggioranza si professava e votava a destra, ebbene, come dicevo, non fu facile spiegare a X quanto questi operai fossero irrimediabilmente estranei a quella sua immagine così arcaica da potersi considerare parte non dell’archeologia, ma della paleontologia industriale. E, nel generale, difficile rendere la totale e quasi assoluta impermeabilità tra classi che caratterizza l’epoca presente».

Contro la comunicazione

Il fatto è che lo scrittore che era stato geometra, magazziniere, lattoniere, muratore, gelataio e molte altre cose, una volta elevato voleva dire la sua, si permetteva di far notare che le cose non stavano esattamente come le si raccontavano di solito dalla distanza.

Quelli che si aspettavano muta riconoscenza per l’occasione concessa si trovarono così di fronte a un vero autore e in breve Trevisan venne etichettato come personaggio difficile, con idee che non erano affatto la caricatura commerciale della scomodità: erano spesso effettivamente scomode, anche al di là delle loro intenzioni. E questo perché non erano comunicazione, erano discorso e alle volte tanto basta. Non a caso la polemica contro la comunicazione è centrale in Works.

«La narrazione e la comunicazione vengono spesso confuse, tanto che, allo stato attuale, sembra che sia possibile narrare solo comunicando. Il nodo è complesso, scioglierlo superiore alle mie forze. Ma mi sembra che chi narra comunicando, o forse ormai bisognerebbe dire comunica narrando, non può mai fare a meno di tracciare quel segno sulla lavagna, i buoni sempre di qua, ovviamente con noi; i cattivi di là, e non è così che va il mondo».

Nel suo ultimo articolo, pubblicato su Repubblica, raccontava con estrema lucidità l’esperienza del Tso a cui era stato costretto contro la sua volontà e scriveva «la cosa che resta da dire è che i ricoverati, tutti i ricoverati, a prescindere da sesso e religione, hanno in comune una cosa: sono tutti, ripeto tutti italiani, di classe proletaria e sottoproletaria. E sono bianchi. Perché c’è poco da fare o da dire: è il proletariato e il sottoproletariato italiano bianco, oggi, a rappresentare la classe sociale meno protetta di tutte, la meno “vista” di tutte. Agli italiani bianchi di classe sociale inferiore, l’assistenza sociale di stato può espropriare i bambini, mentre la psichiatria di stato, dal canto suo, può internare a colpi di Aso e Tso, e trattare ogni cosa a forza di psicofarmaci, senza che nessuna delle innumerevoli associazioni che lotta per i cosiddetti diritti civili abbia niente da dire». 

Concludeva poi dicendo che ai tempi di Berlusconi, Dandini (forse proprio durante l’intervista che ho citato all’inizio di questo articolo), gli aveva chiesto se fosse di destra o di sinistra e lui aveva risposto che forse era di destra ma non di quella destra. Oggi, dopo aver letto Gramsci, alla stessa domanda avrebbe risposto «forse sono di sinistra, ma non di questa sinistra».

Una persona così, lo si capisce subito, in Italia è destinato a un’esistenza travagliata. Ancora una volta però, mettere il conflitto di classe, o la politica, al centro di ogni cosa è limitante. Dalle pagine di Vitaliano Trevisan emerge sempre una sensibilità umana estrema, più profonda di queste manifestazioni esteriori e contingenti.

Emerge la tensione fra il mondo per quello che è, e il tentativo sempre parziale, complicato e segreto di farne qualcosa di diverso. Il tentativo di Trevisan, va detto, era dei più radicali e dei più difficili da sopportare. Un tentativo che vive ancora nelle sue pagine, pagine che dureranno.

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