«Marcello Marchesi» dice la scheda Rai, «nasce a Milano il 4 aprile 1912. Si laurea in giurisprudenza. Comincia a scrivere per i settimanali umoristici. È l’inizio di una proteiforme attività di giornalista, sceneggiatore, regista, attore, scrittore e umorista. Nel 1937 scrive per la radio AZ Radioenciclopedia. Seguiranno decine di trasmissioni tra cui Indovinala grillo (1950), L’amico del giaguaro (1964), Ferma la musica (1969), Andata e ritorno (1972), Quarto programma (1974). In televisione ha esordito nel 1952 con Te le ricordi...» Ma la scheda è appunto Rai, ovvero si preoccupa soprattutto del lavoro di Marcello Marchesi per la Rai, al massimo si spinge sino alla propria versione precedente, l’Eiar. Conviene integrare questi dati. Marcello Marchesi è uno di quegli italiani che ha conciliato Milano e Roma, non patendone l’antiteticità, ma, anzi, alimentandosene. «Sono nato a Milano», confidò una volta al suo migliore intervistato, il giornalista Gian Mario Maletto, con accento romanesco. «L’accento romanesco viene da moltissimi anni passati a Roma, e cresce o decresce secondo la frequenza con cui ci ritorno, degli incontri con gli amici di là. In fondo mi è rimasta soprattutto la finta zeta di ‘borza’...».

Sosteneva che aver due città era indispensabile. E commentava: «Oggi tutto non basta più». Nato a Milano, a tre anni era stato provvisoriamente ospitato da uno zio milanese residente a Roma. Il provvisoriamente era risultato relativo. A Roma, infatti, Marcello Marchesi era restato sino ai diciotto anni ed era tornato a Milano solo dopo la morte del suo ospite. A Milano si era laureato, ed era già inserito in un buon studio legale, quando durante uno spettacolo studentesco al Lirico era stato notato da Andrea Rizzoli, figlio del grande Angelo. Andrea reclutava gente per il giornale umoristico progettato dalla casa editrice di piazza Carlo Erba numero 6, ingolosita dal gran successo che riscuoteva a Roma il Marc’Aurelio di Vito De Bellis, foglio umoristico bisettimanale sorto sulle ceneri dei giornali satirici soppressi dalle leggi fascistissime del dopo delitto Matteotti. È una delle poche occasioni in cui il malinconico Andrea Rizzoli pare aver riscosso la fiducia quasi completa del padre Angelo, che programmaticamente non stimava molto il figlio.

Ma si capisce, quelli che fecero il Bertoldo erano coetanei di Andrea, in un certo senso era lui l’esperto. Lo stesso Marcello Marchesi, comunque, ricordava di esser stato scoperto dal “commenda”: come riferimento era più semplice e più prestigioso. Angelo Rizzoli non ne sbagliava una. La possibilità di sbagliare era concessa, anzi demandata ad Andrea. Marcello Marchesi fu convocato nel 1935 per la prima seduta redazionale del Bertoldo, che avrebbe dovuto chiamarsi in un altro modo ed esser diretto da Cesare Zavattini, ma poi Cesare Zavattini era stato licenziato perché si era iscritto al sindacato dei giornalisti contrariamente al parere di Angelo Rizzoli. E il nuovo periodico umoristico fu affidato alla direzione e all’animazione di Giovanni Mosca e Vittorio Metz, rapiti a peso d’oro al Marc’Aurelio.

Marcello Marchesi figura appunto in posizione centrale nella grande fotografia di redattori e collaboratori di una delle prime sedute redazionali. La fotografia di cui Carletto Manzoni si è servito per la sovraccoperta della sua antologia Gli anni verdi del Bertoldo. Da sinistra a destra sono ritratti: Walter Molino, Mario Ortensio, Dino Falconi, Giuseppe Marotta, Angelo Frattini, Marcello Marchesi, Vittorio Metz, Giovannino Guareschi, Giovanni Mosca, Carletto Manzoni, Andrea Rizzoli, Mario Bazzi. Marcello Marchesi punta l’indice della mano destra verso l’obiettivo, ovvero verso chi guarda la fotografi a, come lo zio Sam. A sollecitare consenso e aiuto. Piazzava battute a poche lire l’una. Nel Bertoldo la sua firma non compare tanto spesso quanto le sue idee, lui creava vulcanicamente battute su battute per rubriche e personaggi, che poi lasciava da sfruttare agli altri. E, quando Vittorio Metz, nevrastenico per l’incompatibilità con Milano, decise di tornarsene a Roma, Marcello Marchesi lo seguì e collaborò sin dall’inizio alla nascita del nuovo cinema comico italiano. Figura, infatti, tra gli sceneggiatori di Imputato, alzatevi! (1939), diretto da Mario Mattoli e interpretato da Macario, a metà strada tra il nonsense e la rivista di varietà.

«Presi dall’entusiasmo riempimmo la sceneggiatura di tante battute che il pubblico non aveva il tempo di ridere, se rideva, ne perdeva metà, una coprendo di risate le battute pari l’altra le dispari...» ricordava Marcello Marchesi.

Seguirono altri film mattoleschi e macariani Lo vedi come sei (1939) e Il pirata sono io (1940). Questo film godeva di una produzione seria per ricchezza di costumi e scene, ma nacque in una particolare temperie. La troupe era negli stabilimenti di Tirrenia per il primo giro di manovella, quando fu convocata in cortile ad ascoltare dagli altoparlanti l’annuncio di Mussolini dell’entrata in guerra. Anche gli umoristi furono inviati al fronte: a Marcello Marchesi toccò l’Africa e il direttore del Marc’Aurelio Vito De Bellis ricevette da lui comunicazione del seguente tenore: «Caro Direttore, avevo saputo che Anton Germano Rossi era stato decorato sul campo in Russia, con una medaglia di bronzo. Mi sono messo di buzzo buono anch’io a fare la guerra per benino, e adesso la medaglia ce l’ho pure io. Ciò influirà sul mio stipendio, spero...»

Sulla sua guerra in Africa nel 1942 il battutista Marcello Marchesi ha scritto una delle sue più sentite poesie:

«Possibile / che quando ero là in buca / ad El Alamein /

con i proiettili / che mi arrivavano sopra / come indici

puntati / io fossi là / per obbligare Anna Frank / a resta-

re / chiusa in soffi tta, / in attesa della morte? / Questa è

la vera sconfitta...»

Con le battute a volte si può arrivare più vicini (e Il malloppo lo prova per eccesso) a smontare le ipocrisie che ingabbiano la realtà. Ma sulle parole dei battutisti si è meno inclini a riflettere, perché troppo rapide, troppo anelanti a sovrapporsi, a sopraffarsi. Quando tornò in Italia, mentre la situazione nazionale precipitava sempre più, Marcello Marchesi intensificò il suo lavoro già fervido per la radio e per il teatro di varietà. Nelle sue riprese del vecchio cavallo di battaglia rivistaiolo ZaBum al Quirino scoprirono la loro vera vocazione i giornalisti Pietro Garinei e Sandro Giovannini. Ma Marcello Marchesi si occupò soprattutto di cinema insieme con Vittorio Metz.

Quanto cinema! La scuola dei timidi (1942), I due orfanelli (1947), Roma, città libera, Fifa e arena (1948), Totò al giro d’Italia, Totò le Mokò, Totò cerca casa (1949), Totò cerca moglie (1950), tutto Totò, tutto Croccolo, tutto Chiari e altri, una sessantina di film comici scritti, chiuso con Vittorio Metz all’albergo “Moderno” oltre tanta rivista per non perdere la forma. Un lavoratore forsennato. Poi di colpo, addio cinema, addio rivista, addio Metz, facciamo arrivederci, non si sa mai. «Siamo l’unica coppia al mondo che si sia lasciata senza litigare. Forse perché del nostro buon lavoro artigianale eravamo fi eri come lavoratori...»

Ritorno a Milano, e nuovo lavoro: produttore televisivo per la Tv che stava nascendo: dopo un Te lo ricordi sperimentale, prima vera trasmissione: Invito al sorriso nel 1954, e poi sempre di più Questo sì, questo no (1955), Guarda chi si vede (1956), Ti conosco mascherina, La Piazzetta (1960), lancio di nuovi talenti, regia, tutto in crescendo.

Un’avventura, che ingolosiva Marcello Marchesi. Ma la televisione diventava sempre più grossa e importante. Attirava la pubblicità. Come poteva Marcello Marchesi restare indifferente alle lusinghe di Carosello? Dopotutto, si trattava sempre di battute. Uno sketch dopo l’altro, uno slogan dopo l’altro. Ammetteva di averne escogitato qualcuno.

Appena quasi tutti: «Non è vero che tutto fa brodo» «Il signore sì che se ne intende» «Con quella bocca può dire ciò che vuole», «Basta la parola», «Come se niente fudesse» a provare ad allinearne qualcuno dei mille e uno, si avverte il sospetto, se non la certezza che Marcello Marchesi sia stato il suggeritore occulto di buona parte della nostra vita di teledipendenti.

Ma lui non si accontentava mai, andava avanti come in una vertigine in quel suo studio al seminterrato di via Livorno a Milano soffocato da migliaia di libri, dove passava le sue notti. Sinché un giorno non è entrato in crisi, scoprendo di essere ormai un signore di mezza età. Lo era, come no? Così diventò anche attore, ma come Il signore di mezza età non osò ostentare la sua faccia di tutti i dì. «Se avessi dovuto presentare il Marcello Marchesi che tutti conoscevano, a faccia nuda, sarei caduto stecchito dalla vergogna. Mi feci applicare dei baffi neri, i primi che trovai sul tavolo del truccatore e che poi ho conservato per scaramanzia e inforcai un paio di occhiali dalla pesante montatura...»

È l’immagine di Marcello Marchesi che almeno una generazione di utenti televisivi non ha dimenticato. Ma il Signore di mezza età ha fatto ben altro. Non si è limitato a ricordare il passato, ha anticipato il futuro. Nel senso che ha creato una parte del linguaggio dei più giovani. Sono stati i giovani ad adottare le definizioni di “matusa” o “semifreddo”. Marcello Marchesi, nonostante i baffi posticci e gli occhiali esagerati o proprio grazie ad essi, si rivelò non più persuasore occulto, ma confidente esplicito, quasi direttore di coscienza. Ricevette lettere di congratulazioni, di esaltazioni. E lui si esaltava a recitare, a pronunciare le proprie battute di fronte al pubblico invisibile ma crescente della televisione. Era come se la mezza età l’avesse inventata lui. Era ormai un grande comunicatore.

Concluso Il signore di mezza età, il Signore di mezza età continuò la sua carriera con Sveglia, ragazzi, L’amico del giaguaro (1964), Il signore ha suonato, La prova del nove (1965), Alta fedeltà (1970), Canzonissima (1969 e 1973). Poiché ci aveva preso gusto fece anche del cabaret.

Non s’interessava molto di politica, proclamava con fermezza e consapevolezza di errori passati o futuri: «Sono sempre stato un uomo di destra, con dubbi. Sono per il progresso, ma un progresso paternalistico». Ma la sua nomenclatura resta insuperabile. «Andreotti: chi non muore, si risiede» «La Pira: Happy ChristMarx» «Gina

Lollobrigida: il petto atlantico», «Moro: il dottor Divago», «Nenni: le confusioni di un ottuagenario»... un pezzo di storia patria concentrato in pillole. A un certo punto scoprì, però, che la sua crisi non era quella della mezza età, dato che aveva ancora energie sconosciute ai nuovi giovani. Cominciò a dire: «A far ridere gli altri, non ci si arricchisce né moralmente né finanziariamente. Adesso vorrei soltanto capire gli altri e, attraverso loro, capire me stesso». Il malloppo vien fuori da questa nuova, fruttuosa crisi. Dopo di allora Marcello Marchesi cambia un poco. Il malloppo è del 1971. Divorziato nel 1970 da Olga Barberis che aveva sposato nel 1949 a Milano, Marcello Marchesi viveva con la soubrette Gisella Pagano a Roma, ma poi Gisella Pagano lo abbandonò. Marcello Marchesi ha sofferto, come solo i comici sanno soffrire. Si poteva forse consolare con la battuta che Gisella Pagano era andata in cerca di miglior fortuna nel senso che era diventata compagna di Loris Fortuna, il padre del divorzio? Sposò la sua governante. Le nozze furono celebrate nel 1976 in Campidoglio, con la moglie in stato di gravidanza avanzata.

Per fare il viaggio aspettarono la nascita del figlio, e poi andarono in Sardegna, patria della seconda moglie, a risposarsi religiosamente.

La nascita di Stefano Massimo sconvolse Marcello Marchesi di gioia. «Per la gioia sono ingrassato di sei chili e dire che avevo fatto sacrifici enormi per calare di venti chili, tutto per non procurare uno choc troppo traumatizzante a mio figlio», si vantava. «Mi ero detto: quel poveretto appena apre gli occhi e mi vede, gli verrà un dubbio: "Ma quello è mio nonno o mio padre?” Allora mi ero deciso a compiere l’operazione restauro. Via i chili superflui e via anche la barba che, quando si è su di anni, non fa contestatore ma solo matusa...» 

Morì nel 1978 annegato in poca acqua a Sinis in Sardegna. Poca acqua: una situazione comica che diventò tragica prima che Marcello Marchesi potesse commentarla con qualche battuta folgorante.

Rifacciamoci a un suo Congedo poetico: «Pescare

l’ostrica / sperando nella perla. / Aprire l’ostrica / restando

come un pirla. Gettare l’ostrica / e dentro il mare riporla.

/ Questa è la vita / del pescator...».

Un’ultima osservazione (nostalgica e protestataria). In questa noterella mi sono sempre riferito a Marcello Marchesi come a un battutista. Riferisce, infatti il grande inviato speciale Max David: «Intanto che si parlava era scappato a Marchesi un neologismo che non avevo mai udito prima di quel momento. Marcello aveva detto: “Perché, vedi, io sono un battutista”. Poi si era corretto, peggiorando la situazione e aveva detto: “Io sono un battutaro, uno sloganaro”. Mi crucciava il suo autolesionismo; mi dispiaceva che Marcello cacciasse se stesso nella buca di chi sforna soltanto battute...». A me, personalmente, cruccia che nel Devoto-Oli o in altri pregiati dizionari di questa lingua imprecisa fi guri la voce battuta non solo come misura musicale, ma anche come replica o aggressione spiritosa, mentre la voce battutista latita del tutto. 

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