Lo racconto spesso. Era il 2004, il mio capo di allora mi chiese: «Letizia, perché vogliamo assumere più donne?». La sua faccia era concentratissima. Gli avevano chiesto di scrivere un memo dove spiegava perché mai un ambiente professionale molto maschile avesse bisogno di fare una cosa bizzarra come sforzarsi di assumere più donne. Non ricordo cosa gli risposi. Probabilmente gli diedi qualche idea. Ricordo bene il suo sguardo sperduto, da cerbiatto meravigliato.

Negli ultimi vent’anni, termini come “diversità” e “inclusione” sono diventati il pane quotidiano del linguaggio aziendale globale. Le grandi multinazionali hanno promosso via via programmi volti a valorizzare la rappresentatività di genere, etnia e orientamento sessuale, spesso accompagnati da campagne pubblicitarie che esaltavano il loro impegno per una società più equa.

Tuttavia oggi emerge la tendenza inversa: sarà Donald Trump, sarà il vento o sarai tu, fatto sta che molte di queste aziende stanno smantellando proprio quei programmi. Un fenomeno che suscita indignazione: «Vedi che era tutta una moda?». 

Questione di numeri 

Ma il comportamento aziendale capitalistico non segue le logiche della moda o della morale. È invece il risultato di mere analisi di crescita o diluizione economica. Analisi continue, inarrestabili. Il capitalismo è fatto dai numeri, e la struttura dei numeri, il modo in cui si muovono e si distribuiscono, è costante, e dunque brutalmente coerente: è la struttura della massimizzazione del valore per gli azionisti. Non so come mai, nel corso di una bellissima parentesi, molti hanno pensato che non fosse più così.

Tutto è misurabile, nel capitalismo, nel senso che tutto può essere ricondotto a un numero. Una formula per convertire le idee in impatti misurabili si trova sempre. La vera morale, in questo contesto, non è altro che l’analisi (costi-benefici). La vera morale non è una morale, ma una strategia: la forma analitica, la filosofia contabile, è la stessa, solo gli input cambiano.

Per un certo tempo, l’inclusione è stata percepita come strategia produttiva. Un impegno pubblico in queste aree migliorava la reputazione dell’azienda, la rendeva più attraente per i giovani talenti, attirava più investitori, mitigava il rischio di critiche o boicottaggi.

Ma appoggiare quei valori ora è meno funzionale. Il panorama politico e culturale sta cambiando. La polarizzazione ideologica ha reso le iniziative legate alla diversità un terreno antipatico, di scontro culturale. In alcuni mercati, il sostegno esplicito a questi programmi è stato interpretato come un eccesso di “cultura woke”, portando a reazioni negative. E siccome i programmi hanno sempre dei costi, quelli percepiti come non essenziali sono stati i primi a essere tagliati.

In questo contesto, la diversità non è più un bene indiscusso, ma un tema controverso che può creare più rischi che vantaggi. L’analisi costi-benefici, invariata nella sua logica, produce così risultati opposti: ciò che prima veniva promosso come strategico oggi ha il segno negativo.

La funzione primaria 

La disillusione di chi sperava in chissà quale rivoluzione è comprensibile, ma rivela ingenuità. Si sperava che l’adesione delle aziende a certi valori fosse un segno di progresso sociale, e avesse della sostanza. Ma questa aspettativa non tiene conto del carattere stesso del capitalismo. La funzione primaria non è migliorare la società, ma, ripetiamolo ancora una volta, generare valore per gli azionisti. Massimizzare il numero che c’è alla fine di una catena di numeri.

È normale criticare questa logica come cinica, ma è anche importante riconoscere in via definitiva (visto che alcuni ci sono ampiamente cascati) che il sistema economico che abbiamo non è progettato per essere moralmente coerente, ma matematicamente coerente. Le aziende non sono agenti del cambiamento sociale. Il marketing non è una forza positiva che cammina accanto ai nostri sogni, ma una funzione aziendale che coopera con altre funzioni per un fine molto chiaro.

I valori morali non possono essere lasciati al mercato, perché il mercato non li custodisce. Li utilizza, li reinterpreta, li adatta alle sue necessità. Questo non significa che non si possano ottenere progressi sociali tramite il capitalismo, ma tali progressi sono intrinsecamente vulnerabili. Sono un sottoprodotto, una simpatica situazione ancillare.

La vera sfida sta nel costruire una società in cui l’etica che desideriamo sia una forza indipendente, che si impone per altre vie. Per varie ragioni questo cambiamento mi sembra al momento difficile, anche per la debolezza strategica e la rigidità ideologica di chi lo vorrebbe.

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