La campanella suona a metà anno scolastico per chi parte, cambia vita e città all’improvviso.

Il giorno della convocazione è molto spesso inaspettato, ma non hai il tempo di pensarci perché bisogna prendere servizio 24 ore dopo. La chiamata arriva quando non ci pensi e ormai non ci speri più. Può succedere che la chiamata non sia improvvisa, ma preannunciata da una mail a cui bisogna rispondere in una finestra temporale spesso ravvicinata all’ora della ricezione e poi, in caso di convocazione, andare a scuola. Quindi, tu puoi rispondere ogni giorno alle mail ma non ricevere mai una chiamata. La logorante attesa confonde i giorni, le risposte diventano mute alle parole altrui: «dove vivi?», «tornerai a insegnare?», «ma fai altro», «ormai sono tutti in cattedra».

Succede se sei una docente precaria, se non sei in nessuna graduatoria, o meglio ci stavi ma hai dovuto cancellarti perché dalla tua provincia hai ricevuto proposte solo di un giorno.

Mentre salgo in treno mi sento parte di una storia collettiva atavica e mi chiedo qual è il confine fra il mio spirito d’iniziativa, il mio desiderio di imparare (e di insegnare) e le frane del sistema scolastico.

Il lavoro è un privilegio?

Mi rendo conto, comunque, che godo di un privilegio: posso prendere un costosissimo treno, dormire sul divano di casa di una ex-collega, per una proposta di supplenza di due settimane che potrebbe essere prolungata e il cui stipendio arriverà due mesi dopo. Insegnare è diventato un privilegio? Mendicare per un posto di lavoro è, comunque, una forma di privilegio. Ma può solo essere una sfida personale? E chi non può spostarsi e affrontare tutte queste spese? Esiste una tutela per gli insegnanti fuori sede di fronte alle angherie della crisi abitativa? Come farò a trovare un alloggio se ho un contratto di due settimane e una stanza al nord costa dai 500 euro in su? Eppure, io sto andando a insegnare in una scuola pubblica al servizio del Ministero dell’istruzione e del merito. Quanto costa insegnare? Penso al film Diario di un maestro di Vittorio De Seta (1973).

Sarò anch’io come il protagonista che arriva ad anno scolastico iniziato in una classe complicata, rimasta chissà quanto tempo senza insegnante? Nel film, dopo averlo conosciuto in sala docenti bisbigliano “tu sei novellino, chi te lo fa fare”. Il futuro di quel mondo che dai banchi non si vede è uguale al passato. Mancano ancora diverse ore all’arrivo e ricevo un messaggio da A. «Hai visto, è uscito il concorso?», «Sì», le rispondo. A. sta insegnando in Piemonte, si trova sul divano di una sua lontana zia perché gli affitti lì sono costosissimi e non sa quanto tempo durerà la sua supplenza.
Parliamo lo stesso linguaggio, quello che prova a mettere in parole l’esperienza della perdita, la voglia di fare, il rapporto con il rischio e il tentativo di cambiare il sistema da dentro cercando di non sottrarre troppe energie alla didattica che, invece, dovrebbe essere al centro di interessi delle azioni legislative ed educative.

Ricevo un nuovo messaggio da A.: «Hai capito qualcosa del decreto dei 60 cfu?». Rispondo: «I vincitori del concorso straordinario durante l’anno di prova dovranno conseguire, a proprie spese, ulteriori crediti formativi i cui percorsi costeranno dai 2000 ai 2500 euro. Questi crediti si uniranno a quelli già precedentemente conseguiti come requisito per la partecipazione al concorso». Inoltre, scrivo ad A., le regioni che hanno maggiori posti disponibili, per la stragrande maggioranza delle classi di concorso, sono tutte al nord. A peggiorare il quadro c’è da considerare che il Concorso straordinario ter non è abilitante, per cui i docenti o lo vincono oppure, come direbbe Eduardo De Filippo, «abbiamo scherzato». Che fare? Può esistere un dialogo aperto che non normalizzi le storture del sistema scolastico considerando l’esercizio di un pubblico ufficio come una sfida personale? Possiamo sentirci parte tutte e tutti di una comunità educante senza accettare passivamente il ritornello «è sempre stato così». Se il percorso dell’insegnante si articola in ostacoli com’è possibile riuscire a recuperare le esperienze pedagogiche positive?

Io, nel frattempo, quello che posso fare è provare a non restare sul divano. Il divano dei posti vacanti, delle supplenze brevi, del proletariato intellettuale.

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