Walter Siti: Voglio partire da una questione, da un’idea che mi è venuta perché in passato ho avuto due risposte molto simili da parte di due scrittori molto diversi come Fabio Volo e Roberto Saviano. Fabio Volo è uno di quegli scrittori che, come diceva Italo Calvino, fa i romanzi come un albero di zucca fa le zucche, cioè con grande naturalezza. L’ho incontrato a una presentazione di un suo libro che mi era piaciuto, ma che aveva un lieto fine un po’ “appiccicato”. Gli ho detto che avrebbe potuto evitarlo, e lui mi ha risposto: «Ma io poi alle mie sciure cosa gli racconto?», nel senso che non voleva deludere l’aspettativa delle sue lettrici più fedeli. Che non vogliono essere disturbate e vogliono essere rassicurate dal lieto fine della storia d’amore del romanzo rosa voliano. In un’altra circostanza avevo chiesto a Roberto Saviano di scrivere un pezzo sul “male” per Granta, una rivista che dirigevo, e lui mi aveva detto «Ho sempre paura di deludere i miei lettori».

Perché due scrittori così diversi si pongono il problema di deludere i propri lettori? Cosa lega uno scrittore ai lettori che sia più importante di quello che lo lega a un obbligo di dover dire quello che lui sente di dover dire? Mi sembra che la risposta non sia facilissima: da un lato viene da dire che lo scrittore deve seguire la sua stella, dall’altro mi sembra che spesso i lettori respirino un’aria nuova in anticipo, prima che lo scrittore se ne accorga. Come se avessero una sapienza, sia pure inconsapevole, di quello che sta accadendo.

Trap e poesia

Su questa faccenda mi vengono due esempi, uno antico e uno moderno. Il primo è quello di Torquato Tasso, che a proposito di suo padre Bernardo (che scriveva romanzi cavallereschi nel periodo in cui si pensava ancora dovessero rispettare le regole aristoteliche, cioè unità di tempo, luogo e azione) racconta di una sera in cui suo padre stava leggendo uno di questi romanzi per dei lettori che al proseguire della lettura – fatta appunto da suo padre – a mano a mano si alzavano e se ne andavano. Annoiati. Mi sembra un buon esempio del lettore che sta più avanti dello scrittore.

Un esempio moderno è invece quello dei trapper, che scrivono in rima in modo molto semplice, se li contrappongo ai poeti d’avanguardia, che scrivono in modo molto raffinato ma “se la suonano e se la cantano” ed è come se avessero scritto in fronte “Io sono antipoesia”. Hanno un pubblico scarso, molto d’élite.

Massimo Pericolo (un trapper che seguo) con la sua totale ingenuità nella scrittura segue lo schema delle stanze assonanzate – quello della Chanson de Roland  X – e non sa perché. «Mi viene così», mi ha detto. E scrive cose del tipo “Io metà buono, metà uomo, quindi plata o plomo/ in banca con la carta oro o con l’Ak d’oro/ io non so quanto costi un volo per i tropici/ tu non sai quanto cazzo costa essere poveri/ non c’è una scelta se i bisogni te l’impongono/ volevo i soldi e sono andato fino in fondo/ per scoprire che non vincono i più bravi ma i più stronzi”, tutto con la vocale tonica in ‘o’. I trapper stanno reinventando la poesia per via induttiva, stanno ricominciando da capo. Ho l’impressione che il pubblico sia più avanti degli autori raffinati, perché probabilmente per la poesia c’è davvero bisogno di ricominciare da capo. Il pubblico può quindi essere un termometro.

Il lettore ipocrita

Alessandro Piperno: Provo a raccogliere la provocazione di Walter Siti partendo dal titolo che abbiamo voluto dare alla nostra chiacchierata: “il lettore è un ipocrita?”. Per chi non lo ricordasse, è Charles Baudelaire, nel primo verso de I fiori del male, ad accusare il lettore di ipocrisia.

I poeti simbolisti amavano questo verso perché sembrava loro un autorevole invito a rompere definitivamente con il pubblico. Ma, a pensarci bene, non è mica questo che intendeva Baudelaire. Il verso, infatti, citato integralmente, recita: “Ipocrita lettore, mio simile, fratello”. Insomma, Baudelaire vuole creare una sorta di complicità con il lettore. Quel che dice è: caro lettore, tu sei un ipocrita, è vero, ma di fatto lo sono anch’io; insomma, siamo sulla stessa barca.

Del resto, se valutiamo retrospettivamente gli esiti editoriali de I Fiori del Male non possiamo non constatare che si tratta di uno dei più grandi best seller di tutti i tempi. E allora, come la mettiamo? Insomma, ci andrei piano prima di insultare il lettore, la fonte del nostro sostentamento. Del resto, anche il best seller più insulso, retorico e deprecabile ha qualche merito: per esempio, quello di aver intercettato un idem sentire, in un modo evidentemente inedito. Mi chiedo se sia più snob scagliarsi contro il lettore o stare qui a blandirlo.

Per quanto mi riguarda, so di avere dei lettori. Anzi, di recente, girando un po’ per presentare il mio nuovo libro, ho scoperto di averne tra i più variegati. Diciamo che al netto della gratitudine, nutro nei loro confronti sentimenti ambivalenti. Nei circa cinque anni che impiego a scrivere un libro il solo lettore che prendo in considerazione è quello che Wystan Hugh Auden chiamava “il lettore censore”, un tizio molto severo, con la pipa in bocca, che sta sempre lì a deridermi. Almeno in questo, non provo gli stessi scrupoli di Saviano e di Volo. Il solo lettore autorevole è il censore che mi porto dentro.

I guai iniziano quando licenzio il libro, soprattutto a pochi giorni dell’uscita. Allora la vanità e la suscettibilità si impossessano di me. Basta il commento di un lettore insoddisfatto a togliermi il sonno. Per questo preferisco non occuparmi troppo degli esisti commerciali di un mio libro. Meglio pensare al prossimo.

Resta ancora una domanda in sospeso: cosa si aspetta da me un lettore abituale? Credo che lui voglia il piatto della casa, così come quando si va in un ristorante di tradizione in cerca di quella pietanza particolare. Insomma, se acquisti un libro di Walter Siti vuoi trovare Walter Siti. Lo dico da lettore, stavolta. Non è mia abitudine compiacere il lettore, ma da lettore amo essere compiaciuto.

Il problema del mercato

Siti: Io invece credo di essere fatto in un modo diverso rispetto a questo: quando scrivo anche per me è come se il lettore non ci fosse, ma ho in testa altri scrittori che ammiro molto, ed è come se loro dovessero vedere da sopra quello che sto scrivendo e farmi vergognare ogni volta che scrivo cose non a quel livello. Pecco di superbia in un certo senso.

Però non sono censore rispetto alle cose che non controllo quando scrivo, perché trovo che sia buono quando vado fuori carreggiata, quando scrivo cose che non mi aspettavo nemmeno io di scrivere. Non mi piacerebbe che la gente si aspettasse di trovare nel romanzo successivo ciò che ha trovato nei precedenti, perché vorrebbe dire che sto facendo del manierismo, che sto adattandomi al solco in cui mi sono già messo perché è un po’ più comodo, perché le scarpe che hai messo da un anno sono più comode di quelle appena comprate. Mi piace stare un po’ nello scomodo. E mettere nello scomodo il lettore.

Quando ho smesso di scrive di Marcello nei romanzi, una scrittrice-lettrice mi ha scritto: “Mi interessava Marcello, non questi personaggi nuovi, perché non ce lo fai più trovare?”. Perché era uscito dalla mia vita, mi interessava altro. L’aspettativa sul libro ha a che fare col mercato. Mi chiedo: per uno scrittore il mercato è una tentazione (provo a fare cose che stiano nel mercato senza tradire troppo me stesso ma pensando a quello che “va di più”, adatto ciò che scrivo a ciò che so già verrà accettato) o è un banco di prova?

Molti anni fa il teorico della letteratura Franco Moretti, fratello di Nanni, provò a vedere quante scrittrici contemporanee di Jane Austen avevano scritto degli stessi temi suoi: ce ne erano una decina. Perché, si è chiesto, ci ricordiamo lei e non le altre? È solo una questione di mercato o è sopravvissuta quella più adatta, quella che aveva colto meglio quello che stava accadendo in profondo nella storia? E lui propende per la seconda ipotesi, aderendo a una visione critica darwiniana della letteratura. In quel caso il mercato è un filtro: sui tempi lunghi sopravvive chi interpreta meglio lo spirito del tempo.

Per me lo scrittore deve fare lo sforzo, quando si trova di fronte al problema del mercato, più che di occuparsi della trama del suo libro, di fare un lavoro da saggista e scrivere dentro di sé un piccolo saggio sull’epoca contemporanea. Non è nemmeno importante che passi nel libro, ma è importante  quello che hai imparato “saggisticamente” sul tuo tempo. Mentre scrivo da una parte devo essere “più stupido possibile” e lasciarmi sorprendere da ciò che scrivo, dall’altra “più intelligente possibile” sul piano saggistico. E sperare che nell’incrocio di queste due cose venga fuori una cosa che si chiama romanzo.

Io ti racconto menzogne

Beppe Cottafavi: Da molti anni lavoro nella casa editrice dove c’è la “cucina” dei libri di Fabio Volo e ogni volta che un suo libro viene pubblicato ricevo una pila di manoscritti accompagnati da una lettera di gente che mi dice: “Ho scritto un libro uguale a quelli di Fabio Volo”. E io penso: “magari”. Non si inventa Fabio Volo a tavolino, come nessun altro best seller. Non c’è l’algoritmo, né il codice Fabio Volo. Credo che sia vero che dentro i libri di Fabio Volo ci sia qualcosa che risuona là fuori e che lui è in grado di cogliere e di raccontare, facendolo sentire ancor prima che pensare. Come accade anche nel suo nuovo romanzo, dal titolo dantesco, Una vita nuova. I suoi libri stanno dentro il mercato, e tanto vendono e tanto vengono letti, perché nel suo perenne protagonista il lettore si indentifica.

I libri di Volo sono uno specchio ben fatto che veicola messaggi rassicuranti. Nel senso che chi legge Fabio Volo è Fabio Volo, e Fabio Volo è il suo lettore. Umberto Eco nella Fenomenologia di Mike Bongiorno diceva che tutti si sentivano più furbi e meno cretini di Mike, guardandolo. Lo specchio era inclinato, a favore del pubblico. Volo ha pareggiato l’inclinazione dello specchio: perché chiunque legge può pensare di essere in grado di scrivere quello che sta leggendo. Non c’è mai arroganza in ciò che scrive Fabio Volo.

Walter Siti: Perché il lettore si rispecchi hai bisogno anche di un lieto fine (oltre che altre doti, soprattutto mancanza di arroganza) e allora vuol dire che l’ipocrisia del lettore non è quella che si aspettava Baudelaire, ma è quella di “superficie cattiva”: il lettore è ipocrita perché preferisce vedere solo il rosa e non il nero, e io scrittore sono ipocrita come lui perché gli do ciò che vuole. Lì entra la prima polemica sul cattivo impegno: tu vuoi che io mi senta molto buono perché penso che essere donna è meraviglioso, essere nero è bello, i migranti vanno accolti tutti, allora ti do un romanzo con questo che è ciò che tu vuoi. Lo specchio del tipo: “io ti racconto menzogne sul mondo e tu le raccogli perché sono quelle che vuoi sentire” è uno specchio negativo.

La musichetta

Beppe Cottafavi: La differenza radicale è che quando scrittori della vostra taglia scrivono, scrivono per riscrivere un’idea di mondo, non per rispecchiarlo. C’è un atto di volontà di potenza del soggetto dell’enunciazione. Siti ha fatto il più bell’incipit della letteratura italiana contemporanea in Troppi paradisi, che recita “Mi chiamo Walter Siti, come tutti”. Codificando in sei parole lo statuto più avanzato dell’autofiction. Nel suo ossimoro ciò impedisce qualsiasi possibilità di identificazione del suo lettore, esattamente come l’io narrante di Alessandro Piperno nel suo ultimo magnifico romanzo, Di chi è la colpa.

Siti: Non scrivo per cambiare il mondo, ma per capirci qualcosa di più. Se deve esserci un’identificazione, vorrei che il lettore non si identificasse con me, ma con i miei personaggi, soprattutto i più complicati, i più difficili da accettare. Questa è la mia sfida.

Piperno: Una precisazione: non intendevo dire che chi acquista un libro di Siti si aspetta la solita minestra. La pietanza di cui parlo ha che fare con la voce e con lo stile, con quella che Louis-Ferdinand Céline chiamava la “petite musique”, la musichetta che rende riconoscibile e inimitabile il tono di uno scrittore.

Siti: Però allo stile meno ci pensi meglio è.

Piperno: Su questo hai ragione. Quando devo spiegare ai miei studenti cosa intendo per “stile” faccio sempre l’esempio dei passi. Ciascuno di noi ha un modo molto peculiare di camminare. Le nostre scarpe nel calpestare il pavimento emettono un suono peculiare e specifico che in qualche modo ci trascende. Ecco, questo per me è lo stile. È un passo che tu stesso non sai di avere ma che gli altri sono in grado di riconoscere e apprezzare.

Siti: Io faccio spesso una cosa da lettore: prendo mezza pagina, leggo, e mi chiedo: “Se non ci fosse il nome, io capirei chi è che ha scritto da questa mezza pagina?” E pochi reggono.

Classifiche di qualità

Piperno: Una delle cose più belle del libro di Siti Contro l’impegno, in cui lui teorizza un neoimpegno (contrapposto a quello tradizionale, sul modello di Zola, Sartre o Pasolini) è il discorso sullo stile. La cosa che realmente sdegna degli scrittori neoimpegnati non è la lotta in nome cause che ritengono giuste, ma che per perseguirle si affidino a uno stile comunicativo ruffiano. È il contrario di ciò che facevano Sartre o Pasolini, per cui l’impegno non poteva prescindere dallo stile. Ciò detto, mi preme ribadirlo: non demonizzo le classifiche. Dopotutto hanno il merito di fornire dati inoppugnabili: questo libro vende, quest’altro no. Le classifiche di qualità, invece, rischiano di peccare di soggettività.

Siti: Le classifiche di qualità non hanno senso (chi decide cosa sia di qualità?), ma una cosa è il mercato, un’altra il giudizio della storia. Cosa ha fatto sopravvivere Saffo o Petronio? Davvero il mercato o altro? Sono dinamiche difficili da capire. Sono possibili tutte e quattro le opzioni strutturali: ci sono libri brutti che vendono un sacco, libri brutti che vendono niente, libri belli che vendono un sacco, libri belli che vendono niente.

Piperno: Però ogni volta che parli con un sociologo della letteratura con il suo atteggiamento vetero-marxista indica solo un’opzione: i libri brutti vanno bene, i libri belli vanno male, che è una cazzata. Guerra e pace è andato molto meglio di molti libri brutti.

Il lettore vero

Cottafavi: Entrambi siete sia narratori sia saggisti e studiosi di letteratura. Quando scrivete saggi come vi regolate rispetto ai vostri lettori?

Piperno: Ricordi le scrivanie di Pascoli? Per me c’è una sola scrivania: scrivo romanzi e saggi allo stesso modo, e spesso le mie narrazioni si mescolano con considerazioni saggistiche. E viceversa.

Siti: Quando ho scritto il mio primo romanzo, Scuola di nudo, e ci ho messo 12 anni, venivo da una carriera di critico letterario e ho sudato per tirarmi fuori dallo stile saggistico. Oggi però mi sembra che la mia narrativa si sia riversato sul saggismo: scrivo saggi con stile più narrativo, discorsivo. Sono convinto che il lettore vero che vorrei è quello che esisterà quando io sarò morto. 

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