La copertina dell’inserto Finzioni del mese di febbraio è firmata da Grazia La Padula, illustratrice di immenso talento. A febbraio fa ancora freddo, sono finite le feste e si torna alla normalità. Il tema è quello della pioggia, elemento invernale per eccellenza ma anche sinonimo di cambiamento. Dopo una tempesta il cielo, in qualche modo, rinasce ogni volta. Grazia La Padula, illustratrice e fumettista di Roma, ha fatto il suo debutto nel 2009 in Francia. Nel 2021 ha vinto il Premio Coco come miglior autrice unica, nel 2023 è uscito in italiano Diario di una cagna e ha vinto il prestigioso premio Toppi.

La sua biografia ci parla di una donna artisticamente nata e cresciuta fuori dall’Italia. Perché?
Quando mi sono iscritta alla Scuola internazionale di Comics era il 1999, il panorama editoriale italiano era molto più ristretto di adesso, molte delle case editrici attuali non esistevano. Io ero una lettrice di Dylan Dog e pensavo di voler disegnare per Bonelli. È stato a scuola, soprattutto grazie al mio insegnante Roberto Ricci, che ho scoperto il fumetto francese e tutta la varietà di segni, colori, generi, mondi espressivi che offriva. Ho capito che lì avrei potuto trovare uno spazio che potesse corrispondermi di più. Il panorama espressivo si è ampliato anche in Italia, ma non si può negare che le condizioni lavorative francesi restino comunque molto vantaggiose. E sì, fare fumetti è un lavoro vero

Diario di una cagna è in qualche modo anche un manifesto di libertà. Ci racconti il processo di realizzazione di questa opera.
La collaborazione con Céline è nata grazie all’editor Olivier Jalabert, che conosceva il mio lavoro e che ci ha messe in contatto. La sceneggiatura era ancora in fase di sviluppo, ma mi ha subito attratta l’idea: un percorso di conoscenza di sé e di autodeterminazione verso una progressiva liberazione da falsi desideri e da ruoli imposti.

E mi interessava che fosse la storia di una donna raccontata da una donna. Ho iniziato a lavorare agli studi del personaggio partendo dalle indicazioni di Céline, inevitabilmente Elise si è concretizzata alla fine come un incontro fra le nostre due immaginazioni. Ho condiviso totalmente la sua visione, la verosimiglianza della protagonista: che non ricalcasse l’eterno stereotipo del corpo femminile “perfetto” – e sempre quasi identico a sé stesso – altra gabbia da cui liberarsi. Entrambe volevamo che si sentissero la forza di gravità, la cellulite, i rotolini, la cicatrice del cesareo, il peso e la morbidezza della carne.

Uno o due consigli a chi, adesso, vuole iniziare ad accostarsi al fumetto come autore?
Non avere paura. Dell’errore, del disegno brutto, avere il coraggio e la libertà come obiettivo finale. Che vuol dire uscire dalla comfort zone, cercare di spostare i paletti sempre un po’ oltre quello che già sappiamo fare. Rubando le parole a David Bowie: “Vai sempre dove è un po' più profondo.

Quando senti che i tuoi piedi non toccano più il fondo, sei esattamente nel posto giusto per fare qualcosa di eccitante”. L’altro consiglio è non cercare di soddisfare le aspettative degli altri. Forse non sono consigli per i soldi e il successo, ma per fare questo lavoro con entusiasmo, desiderio e curiosità.

Cosa le evoca la pioggia?
Una canzone dei Cure, un addio romantico, riflessi e luci della città, una foresta gocciolante. Giocare, bagnarsi e fregarsene come bambini, saltare nelle pozzanghere, lavare via le scorie. L’acquazzone estivo in campeggio che segna la variante eccitante nello scenario sole-mare e un luccichio come se fosse un’avventura. E la pioggia che deve arrivare, l’attesa, la promessa nella nube, la promessa fragorosa del tuono.

Collabora spesso come illustratrice per riviste o magazine, uno dei suoi ultimi lavori è una cover per Rolling Stone dedicata agli 88 anni di Woody Allen. In che modo sceglie i dettagli delle illustrazioni, come le palette di colori?
Procedo con un misto di ragionamento e istinto. Nel caso dei ritratti parto da associazioni mentali che rimandino all’universo del personaggio in questione. Guardo tonnellate di fotografie, assorbo il mood generale, anche se nella maggior parte dei casi ritraggo personaggi che già conosco bene e che amo. Quando si tratta di registi l’associazione visiva può essere più immediata, soprattutto per autori come Wes Anderson, che della simmetria e di certe palette di colori ha fatto il suo marchio. Nel caso di Woody Allen il riferimento per il colore era in particolare la fotografia dell’ultimo film, filtrata un po’ dal mood delle sue pellicole anni Settanta.

Per i dettagli grafici, ho inserito elementi tratti da vari film cercando di combinarli in un modo che potesse soddisfare anche la mia ossessione per la composizione. Molta documentazione, molti frame, molti bozzetti. Parto da un’idea sommaria, ma poi è soltanto matita alla mano che la trovo, fra tanti tentativi destinati a essere cestinati, e la sviluppo, un aggiustamento dopo l’altro. Quando ritraggo musicisti le associazioni sono un po’ più soggettive e istintive. Ma c’è sempre un universo visivo a cui attingere, un’atmosfera, la traduzione di suoni in colori. Sentire e tradurre è la parte che mi diverte di più. L’ho sempre fatto ascoltando la musica, penso lo facciamo tutti, si tratta soltanto di concentrarsi un po’ di più per mettere a fuoco.

Lou Reed l’ho visto subito in viola e nero con dei lampi d’arancio e verdino, perché così mentalmente traducevo le notti newyorkesi, le dissonanze, l’universo in decadenza e il glam, il marcio, l’eroina e il tocco pop della Factory di Warhol. Per le prossime illustrazioni su Linus, nel numero di febbraio, c’è una ricerca iconografica molto specifica che mi ha divertita molto, perché vicina a un ambito artistico a cui finora mi ero avvicinata poco. E poi, ancora una volta, l’animo da fan scalpita!

Ci sono temi o argomenti su cui preferisce lavorare? Ha mai rifiutato un lavoro perché non ne condivideva il messaggio?
Nei lavori personali prevale il mio lato introverso, cerco una forma per movimenti interiori che non so verbalizzare e amo proiettarmi in scenari misteriosi, atmosfere lynchane, da realismo magico. Mi affascina il legame fra l’essere umano e le sue radici più animali e ataviche; spogliarlo dei suoi connotati sociali e morali per immaginarne il diamante più puro e feroce, atemporale, quasi stregonesco nel suo rapporto con il mondo. L’illustrazione editoriale è chiaramente molto più varia.

Mi sta capitando spesso di lavorare su temi sociali che condivido, dalla resistenza alla parità di genere. Far parte del collettivo transfemminista Moleste sicuramente fa sì che accada più spesso di affrontare certi argomenti, e che io stessa tenda ad approfondirli di più. Penso si crei una sorta di circolo virtuoso per cui proposte “indecenti”, con messaggi che non condivido, difficilmente mi arrivano e, a memoria, non mi pare mi siano capitate. Le rifiuterei, resto ancora troppo testardamente idealista.

Un elemento praticamente imprescindibile del mondo della creatività sono le sfide. Ci parli di una grande sfida che ha dovuto affrontare.
Ogni nuovo lavoro è una sfida, ogni volta lo vivo come un’occasione per imparare qualcosa, liberarmi di qualche paura e provare variazioni. È la spinta che mi muove e che fa sì che mi diverta ancora. Ma per andare più sul concreto, penso alla prima collaborazione con Linus: non ero abituata ai tempi così rapidi dell’edicola e mi ha insegnato molto da questo punto di vista.

Le ultime illustrazioni per Jacobin la sfida più recente. Riassumere i vari concetti di articoli abbastanza complessi, sintetizzandoli in immagini singole che non fossero né troppo didascaliche né troppo aleatorie, ha spinto i miei meccanismi mentali un po’ oltre la mia zona di comfort. E poi la sfida più romantica, restituire il mio ventennale amore per Bowie in una breve storia a fumetti.

Ci può anticipare qualcosa sui progetti futuri?
Sto lavorando a un fumetto per la francese Futuropolis, scritto da Laurent Galandon. È ambientato nella Parigi degli anni Cinquanta e si chiama “Les insoumises”, le ribelli. Tre adolescenti che vogliono vivere liberamente per come sentono e per come sono, in un contesto in cui essere una donna obbligava a confini piuttosto rigidi. Insomma, il tema torna da me in un’altra forma e lo accogliamo volentieri, io e la me quattrenne a cui veniva impedito di giocare con un pupazzetto di Superman, un gioco da maschi.

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