Nella sua ormai lunga carriera dietro la macchina da presa, Lucio Pellegrini ha spaziato dalle commedie con Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, ai film con sfumature di impegno sociale con attori come Pierfrancesco Favino, Elio Germano e Riccardo Scamarcio, fino a una serie raffinata come Il Miracolo di Nicolò Ammaniti.

A 56 anni Pellegrini esordisce anche come scrittore con La linea (Nave di Teseo), un romanzo corale sui Mattei, una famiglia borghese ritratta attraverso un’alternanza di voci, di tempi e di luoghi. Un mosaico all’interno del quale Pellegrini trova il giusto tono per ogni voce, riuscendo così a restituire la voce unica di una famiglia pur nella variabilità estrema dei suoi componenti.

Convincente nel racconto di ossessioni, speranze e paure fra loro tanto diverse, confeziona efficacemente in forma contemporanea un romanzo che contiene diversi elementi di classicità, a partire dal tema della saga familiare.

Quanto è importante l’affermazione personale nella Linea?

Non è tanto il successo a guidare i personaggi del mio romanzo, quanto il succedere. Mi spiego. Ogni carattere della Linea cerca di far coincidere desideri e destino, combattendo coi propri limiti, le proprie paure. Questa necessità di affermazione, di realizzazione senza preoccuparsi troppo degli altri, mi sembra un tema contemporaneo e un obiettivo di vita che la retorica fortemente illusoria del nostro mondo fa coincidere con la libertà. Quello che prova a raccontare il romanzo è che cosa può accadere quando le cose, alla fine, succedono davvero.

La famiglia Mattei sembra vivere sull’eredità di splendori ormai passati, solo il patriarca riesce a imporsi per il rotto della cuffia, le nuove generazioni sembrano al contrario sospese in un limbo, oppure anche quando riescono in qualcosa, si nascondono. Vede una trama decadente nel nostro tempo storico?

Questa difficoltà dei figli a trovare un posto nel mondo non è solo del nostro tempo storico, ma certamente si è radicata nel nostro modo di vivere degli ultimi decenni. Le vecchie generazioni hanno consegnato alle nuove anni di pace in un mondo poco vivibile e una società bloccata, senza spazi da occupare. E quando questi spazi naturalmente si creano, come nella scena politica degli ultimi anni, quasi sempre vengono occupati dai peggiori, personaggi senza arte né parte, eredi disperati della commedia all’italiana. Allo stesso tempo buona parte delle nuove generazioni sono arenate in una sorta di fatale immobilismo e nella conservazione dei piccoli, obsolescenti privilegi consegnati loro dai genitori. Ovviamente ci sono alcune sorprendenti eccezioni, ma il pensiero che tiene insieme tutti, giovani e vecchi, è la rassegnata certezza che questo paese non potrà mai cambiare.

In questo genere di famiglie borghesi il confronto con la generazione precedente è fondamentale e può segnare una vita: in che modo questo tema entra nel romanzo?

Io penso che questo tipo di confronto sia uno dei nodi centrali della nostra vita, sia che si arrivi da una famiglia borghese, sia che si provenga da altri tipi di ambienti. È un confronto a volte analizzato, a volte vissuto in modo più istintivo. La nostra vita in fondo è un noir degli anni d’oro, in cui il protagonista, che è convinto di essere riuscito a costruirsi una vita, a un certo punto della storia comincia a essere braccato dal proprio passato.  Non si scappa dalle proprie origini. Neppure quando fisicamente ci si allontana.

Lo stallo esistenziale dei suoi personaggi più giovani – che per altro non sono neppure più davvero giovani in assoluto – lo avverte più come una loro responsabilità personale o pensa siano schiacciati da un destino eccessivamente avverso?

Il romanzo racconta questi ragazzi in varie fasi della loro vita. Li si incontra quando sono molto giovani e questo segna la percezione che si ha di loro per tutta la lettura. Il loro stallo esistenziale è il risultato di una lotta impari con un paese ostile ai cambiamenti e bloccato socialmente. La loro responsabilità è quella di non riuscire a staccarsi dalla zona protetta per affrontare la vita e loro stessi.

Ha utilizzato la narrazione corale, a più voci, è una strategia con tanto potenziale ma anche molto complessa, perché ha fatto questa scelta?

Perché il romanzo si è composto così, in modo immediato, un racconto dietro l’altro. Ogni racconto è incentrato su un personaggio di questa famiglia, colto in un momento fondamentale della sua esistenza. Una narrazione non lineare, in cui ogni parte potrebbe anche vivere da sola. Scriverlo è stato come costruire delle tessere di un puzzle che ha preso forma giorno dopo giorno. Solo a posteriori, ho capito di aver fatto un lavoro formale quasi architettonico. E l’architettura è il mestiere del componente principale della mia famiglia, Stelio Mattei. La linea nasce proprio così. Con l’idea di raccontare una saga famigliare.

Capita in effetti di rendersi conto di un aspetto profondo di un libro solo dopo aver finito di scriverlo: l’architettura è centrale nella famiglia Mattei, nella realtà invece qual è il suo rapporto con essa?

L’architettura accompagna la mia vita e quella della mia famiglia da sempre. Paesaggi urbani e suggestioni visive che mi porto dietro da sempre, da quando, da bambino, mio padre portava me e mia sorella a visitare chiese e edifici in giro per l’Italia, un po’ come fa Stelio Mattei coi suoi ragazzi. Ho avuto un’educazione alla bellezza e in questo libro ho provato a restituire al lettore lo stupore e l’emozione che si può provare guardando per la prima volta una costruzione spiazzante e rivoluzionaria.

Come ha lavorato alle creazione delle diverse voci?

Ho lavorato sul tempo e lungamente sui personaggi. E ho scelto un modo di raccontare diverso per ognuno di loro, passando dalla prima persona alla terza, qualche volta anche dalla seconda. Ho cercato di costruire un oggetto formalmente eclettico, tenuto insieme da un’unica voce impressionistica, ironica e dolorosa. La voce è l’unica cosa che conta davvero nell’espressione artistica, è ciò che rende unico ogni racconto.  

Oltre a una coralità di personaggi il romanzo contiene anche una pluralità di luoghi, quanto sono importanti e perché?

La storia della famiglia Mattei esplode nel tempo ma anche nello spazio, in luoghi e spazi che fissano ed esaltano ogni passaggio del mio romanzo. Immagini, sapori, odori che conosco bene e che sono protagonisti della storia quanto i miei personaggi. Ci sono varie versioni di Roma. Ce n’è una avvolgente e limacciosa e ce n’è un’altra luminosa ed esplosiva, c’è un appartamento del Marais a Parigi che diventa teatro della scena decisiva del romanzo, ci sono le Langhe che per me significano infanzia, c’è l’Eritrea, la sua architettura razionalista e tutte le sensazioni di follia e incompiutezza che sa trasmettere ai suoi visitatori.

Il romanzo permette l’accesso diretto alla vita psicologica ed emotiva dei personaggi senza necessariamente avere bisogno di esplicitarla in azioni o situazioni come invece accade nel cinema. Come si è rapportato a questa possibilità?

Sono ritornato a un desiderio che ho sempre avuto e mi sono preso il tempo, molto tempo, per mettermi alla prova e scrivere un romanzo. Un romanzo che non fosse il libro di un regista, che quasi sempre sono illeggibili, ma l’esordio di uno scrittore, diciamo così, non giovanissimo. Scrivere un libro è l’opposto di fare un film. È un esercizio di solitudine, che dura a lungo. In un film invece si ha a che fare con una enorme quantità di persone, in un tempo molto breve. Scrivere un romanzo poi è costruire un gioco intimo tra scrittore e lettore, mediato da una forma espressiva razionale, ma che offre estrema libertà. In un film la parte formale è molto più definita, le esperienze sensoriali investono vista e udito, il gioco di rimandi emotivi con lo spettatore ha più a che fare con l’inconscio.

I capitoli del romanzo sono stati pensati prima in termini di immagini?

Mi è naturale pensare per immagini, ma in questo caso ho lasciato che queste suggestioni trovassero il loro equilibrio col racconto del mondo interiore dei miei personaggi. 

Altra questione eminentemente romanzesca, e che nel cinema trova una trasposizione solo parziale nel “tono”, è la lingua, come ci ha lavorato?

La voce di cui parlavo prima è qualcosa di più di una lingua. È qualcosa che si sente sfogliando le pagine, che ti prende per mano e ti conduce dentro il suo mondo. Non si definisce, non si costruisce, si può solo affinare. In letteratura, così come nel cinema e nelle altre arti, è la parte fondamentale di quell’imponderabile che spesso è definito talento. Il talento è tutto e non basta, come dice uno dei personaggi di questo libro.

È più divertente scrivere un romanzo o girare un film o una serie?

L’unica cosa che ho imparato in questi anni è che se mi diverto non funziono. Negli ultimi anni mi sono divertito poco e penso di aver fatto le mie cose migliori.

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