In questi primi, timidi mesi di ripartenza della stagione cinematografica italiana, dopo le chiusure e con il green pass, è stato soprattutto un titolo a colpire l’attenzione: un film che nel giro di poche settimane ha raccolto ben cinque milioni di euro e convinto quasi 800mila persone (dati Cinetel), poco sotto a Dune e di poco sopra a Fast&Furious o al nuovo Marvel.

Si tratta anche in questo caso del singolo tassello di un racconto a puntate, ma Me contro te. Il mistero della scuola incantata è soprattutto l’ennesima consacrazione di un fenomeno, quello dei Me contro te appunto – con i due giovani fidanzati Luì e Sofì e un mondo fatto di supercattivi e tanto slime –, nato e sviluppatosi mediante i video su YouTube, esondato poi in libreria e infine approdato al cinema.

26/04/2019, Milano, intervista agli YouTubers Me Contro Te, Sofi' e Lui'

All’inizio dell’estate, invece, aveva generato discussioni e curiosità la notizia che ci fosse un nuovo italiano più seguito al mondo su Instagram e Tik Tok, Khaby Lame, un ventunenne nato in Senegal ma cresciuto a Chivasso, diventato famoso per brevi, fulminanti clip di reazione comica e finto-distaccata ai tanti fenomeni “virali” dall’effimero successo di questi social basati sul video; ne sono seguite le partnership con la Juventus e la passerella alla Mostra del Cinema di Venezia.

05/09/2021 Biennale di Venezia, 78 Mostra Internazionale d' Arte Cinematografica, Red carpet del film Illusions Perdues, nella foto Khaby Lame

Sul finire della bella stagione, invece, è tornata protagonista la seconda italiana più seguita al mondo sui social, Chiara Ferragni, che insieme al marito Fedez e ai figli Leone e Vittoria dà vita a un formidabile e ininterrotto video-reality show: prima la foto di un litigio finita su un settimanale invece che nelle stories, ovviamente subito diventata meme; poi la riparazione-prosecuzione con la sorpresa di lui a lei per il terzo anniversario di matrimonio, al largo del lago di Como, con tanto di nuova canzone (e singolo: «litigare con te è meglio del cinema»); da ultimo l’annuncio di una serie di otto puntate sulla loro vita insieme, The Ferragnez, prodotta da Amazon (to be continued…).

Cambio di paradigma

Me contro te, Khaby Lame e Ferragnez sono però solo tre tra gli esempi più appariscenti di un cambio di paradigma profondo. Di una narrazione nuova e ormai solidamente aggregata al sistema dei media, alla cultura pop e alla celebrità contemporanea, e che dai bordi è arrivata al centro, accolta da nasi arricciati o speculari entusiasmi, ma ancora, in fondo, tutta da capire.

E ad aiutarci in questa decodifica, da poco è uscito in traduzione italiana un libro, Social media entertainment. Quando Hollywood incontra la Silicon Valley di Stuart Cunningham e David Craig, sedicesimo volume della collana SuperTele di Minimum fax: una ricerca accademica che prende sul serio un settore emergente e ora trionfante, tracciandone i confini e raccontandone lo sviluppo, spiegandone le logiche profonde, mostrandone con inedita franchezza il “dietro le quinte”, la costruzione attenta di ogni cosa.

Facendo ampio ricorso a dati e interviste ai protagonisti, i due autori scavano nello scenario anglofono, americano e non solo, di un’industria dell’intrattenimento social che si è diffusa parallela anche altrove, Italia compresa, sempre discussa ma finora senza ricognizioni sistematiche: un mezzo (in apparenza) istantaneo come il video online rischia infatti di portarci spesso a essere altrettanto istantanei nell’analisi, a stare in superficie, seguendo ogni piccola svolta senza però intercettare le traiettorie di fondo.

I soggetti dello spazio mediale

Come prima mossa, Cunningham e Craig tracciano i confini di questo nuovo spazio mediale, così da individuare con precisione i soggetti dell’analisi. Tante sono le parole usate per indicare chi realizza e condivide contenuti (testi, fotografie, soprattutto video) negli spazi online: influencer, youtuber, twitcher, o in generale streamer sono tasselli di una terminologia rigogliosa ma evanescente, e ogni vocabolo porta con sé differenti sfumature di senso – e spesso specifiche strategie di marketing.

In un settore in cui ogni testo è divenuto content, il libro adotta la denominazione di creator, a sottolineare il ruolo creativo e produttivo di questi soggetti sempre «impegnati nella commercializzazione e nella professionalizzazione di sé, che generano e diffondono contenuti originali per incubare, promuovere e monetizzare il loro brand multimediale sulle principali piattaforme di social media sia in modalità offline» (p. 131).

Il social media entertainment (Sme), creator dopo creator, si è ritagliato uno spazio diverso, per quanto comunicante, dai mezzi di comunicazione classici, e costituisce l’altra metà del video digitale, distinto da Netflix e dalle altre piattaforme, uno spazio dove la creatività “dal basso” e amatoriale si è rapidamente trasformata in impresa, sviluppando formati editoriali e pubblicitari inediti, costruendo relazioni e comunità: i creator sui social incontrano un ampio numero di follower, e questo legame cambia tutto.

L’evoluzione

Una volta definito a grandi linee il campo, la seconda mossa del libro è poi l’invito ad approfondirne la storia e la geografia. Ci sono tratti di continuità e novità forti.

C’è stata una prima fase (Sme 1.0) legata alla nascita e ai primi passi di YouTube, allo stabilirsi di un modello prevalente se non esclusivo, al definirsi di un linguaggio e un’industria legati solo al servizio di proprietà di Google; è poi seguita la seconda fase (Sme 2.0), in cui il panorama si moltiplica e si confonde, aumentano i player e gli intermediari, i creator colonizzano altri spazi e portano con sé le community ridefinendo ogni volta estetiche e regole del gioco; e già possiamo integrare l’analisi di Cunningham e Craig con una terza fase (Sme 3.0?) dove la distinzione con i media di massa si assottiglia e i creator sono passati dal montaggio al live, dalla clip al flusso dello streaming.

Guardando agli Stati Uniti, questo libro esplicita poi una linea di frattura spaziale, teatro dello scontro e dell’incontro tra le culture tecnologiche e partecipative tipiche dell’online e le classiche culture mediali del cinema e della televisione. Due parti di una sola regione, la California, sono divenute l’emblema una del digitale e l’altra del mainstream: da un lato San Francisco e la Silicon Valley, orientati alla tecnica, alla distribuzione, allo spirito libero e creativo, a rendere possibile la nascita di un settore nuovo; e dall’altro lato, prima nettamente contrapposto e persino nemico, poi via via più vicino e ibridato, Los Angeles e Hollywood, focalizzate sui contenuti, sugli aspetti editoriali, sui pubblici di massa.

Social media è allora sia un ossimoro sia una sintesi, tra forze e tensioni continue. Se poi al centro californiano già duplice si aggiungono la chiusura cinese, i sostegni e i vincoli europei, la diaspora delle mille periferie, lo scenario si complica ancora, ripetendo (anche in Italia, basti pensare agli esempi già citati) la dinamica di continua separazione e riavvicinamento, di distanza e continuità tra spazi digitali e media tradizionali.

Vere professionalità

L’invito di Cunningham e Craig a esplorare a fondo il social media entertainment si completa poi con una terza mossa, la raccomandazione ad andare oltre l’apparente trasparenza, immediatezza e neutralità dei creator e dei loro contenuti, a guardare dentro la “scatola nera”, a scoprire che il video online è ben lontano ormai da quell’ingenuo broadcast yourself da cui è partito per diventare un’industria.

Senza moralismi e condanne, e senza esaltazioni per libertà espressive e soldi facili, quello di chi fa video online – nella base dei milioni che ci provano, come nella vetta dei pochi che ci riescono – va affrontato innanzitutto come un lavoro, un mestiere, una professionalità: da un lato il precariato e lo sfruttamento (exploitation), la grande mole di lavoro, il continuo “fare da soli”; e dall’altro il potenziale incredibile, le opportunità di empowerment, il fascino e la natura emotiva di un impegno trainato dalla passione, l’elevata possibilità di sperimentare da “autodidatti” che supera la “gavetta” degli altri media.

La parte cruciale di tale lavoro è la costruzione e la manutenzione di un’ampia comunità di fan, su più piattaforme: programmando le uscite dei video, di continuo macinando dati e metriche, tratteggiando un pezzo per volta un’identità “autentica” e insieme costruendo partnership commerciali, collaborazioni con altri creator e con i media mainstream.

Dopo la fase eroica, per tanti versi, il social media entertainment è diventato un settore come e tra gli altri, una fabbrica dell’immaginario dove la disintermediazione si è rivelata apparente. Non è mica detto sia un male, ma è il caso di ricordarcene, mentre guardiamo un video di YouTube o scorriamo verso la prossima story.


Stuart Cunningham e David Craig sono autori del libro Social media entertainment. Quando Hollywood incontra la Silicon Valley, edito da Minimum fax e tradotto da Rocco Fischetti

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